Questa recensione contiene spoiler rilevanti sulla trama. Se non hai ancora visto Cat Sick Blues, consiglio di rimediare subito, prima di tornare a leggere questo post.
Essere scelti da un gatto – perché sì, è lui a scegliere voi e se pensate il contrario probabilmente avete dei cani – è un privilegio estremamente comune (i gatti sono tanti e quella ciotola non si riempirà certo da sola) ma non per questo di scarso valore. Quando un gatto entra nella vostra vita, cioè nella vostra casa, non vorrà uscirne più. O meglio, vorrà uscirne per poi rientrare, per questo è bene che la porta resti sempre aperta.
Ecco, in Cat Sick Blues (2015) succede una cosa del genere, ma con un serial killer.
Questo è un approccio piuttosto soft per un film parecchio violento e molto, molto malato. Descriverne la trama non gli renderebbe onore, perché al di là di un intreccio raccontato dannatamente bene, grazie a una sceneggiatura sicura di sé e una regia che avanza spedita come un treno, in Cat Sick Blues viene rappresentata l’anatomia (felina) del disagio mentale attraverso una quantità pantagruelica di input visivi, un sovraccarico narrativo e un continuo zigzagare tra un sottogenere e l’altro, all’insegna della bulimia registica.
Il protagonista, Ted, è un giovane mentalmente disturbato i cui hobby principali sono: indossare una tenerissima maschera da gatto, guanti con artigli in grado di trinciare e recidere un arto in pochi secondi e una protesi fallica felina piuttosto grande*;
uccidere e decapitare vittime sacrificali, raccoglierne il sangue in un bidoncino e portarne con sé la testa a mo’ di trofeo da conservare nel freezer;
tentare di resuscitare il proprio gatto, la cui morte ha evidentemente generato un trauma, attraverso un rituale che richiede il sangue di nove vite umane;
rovinare definitivamente la vita a Claire, una youtuber divenuta famosa attraverso i video virali della sua gatta Imelda e reduce da uno spiacevole incontro con un fan fuori di testa che entra nel suo appartamento, le ammazza il gatto e la violenta sotto lo sguardo indifferente di una videocamera (inutile dire che il video dello stupro finirà su internet).
Il regista australiano Dave Jackson sembra un cuoco impazzito che aggiunge sempre nuovi ingredienti al suo minestrone granguignolesco senza mai rovinarne il sapore. Così ci sono gli omicidi rituali, nove uccisioni creative, una diversa dall’altra, all’insegna dello splatter, con piccole dosi di gore e grandi quantità di idee geniali. Come ad esempio nella scena del quadruplo omicidio all’ostello, con tanto di rallenty e sottofondo musicale straniante (la canzone, che dopo aver guardato il film andrete sicuramente a cercare su YouTube, è Repulsion di Mistabishi).
Poi c’è la vicenda parallela di Claire, che assume le vesti di martire 2.0 e sopravvive all’orribile morte del suo gatto, a uno stupro, alla diffusione online del relativo video, alla scomparsa dei facili guadagni provenienti da YouTube, a una brutta scopata con un tizio conosciuto in un gruppo di sostegno per persone che hanno perso un animale (e che non riescono a superare il lutto), alla consapevolezza di essersi scopata un killer seriale, a un assalto in casa propria a opera del suddetto e, last but not least, a un tentativo di suicidio.
E poi c’è una vaga presa per il culo della società contemporanea, che riesce bene quando rimane vaga e fuori campo mentre ristagna in una deriva fallimentare quando tenta di criticare in maniera mirata e ingenuamente diretta internet e la mancanza di empatia dei suoi utenti. Per questo motivo alcune scene funzionano e altre no, alcuni dettagli descrivono con ironia e discrezione certi comportamenti parossistici oggi ampiamente diffusi, e altri no: si pensi alla smania di realizzare video dell’animalino nuovi e sempre più divertenti, all’eccessivo attaccamento al proprio animale defunto con tanto di incontri periodici presso un apposito gruppo di sostegno o alla misoginia di un assassino che sevizia e uccide soltanto donne. Per contro, non convince – anzi, irrita – quel continuo puntare il dito in maniera semplicistica contro gli instupiditi tecnologici che commentano uno stupro con cinismo e indifferenza attraverso un video-reazione o che fotografano ridendo una donna che si è appena buttata dalla finestra.
Sbavature a parte, Cat Sick Blues è un low budget che non soffre la fame e che merita di essere guardato con particolare attenzione, perché riesce a condensare in soli novantaquattro minuti ciò che normalmente verrebbe utilizzato in quattro diverse pellicole.
* Il pene dei gatti è coperto di piccole spine ricurve che durante l’atto si attaccano come degli uncini alle pareti vaginali, graffiandole. The more you know…
L’ho guardato di sfuggita, è …. diciamo che è! 😀
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Sicuramente è: questo nel bene e nel male lo ritengo un buon requisito. Per quanto mi riguarda poi, è uno degli horror indipendenti contemporanei preferiti.
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Comunque è piacevole
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