Quando un horror riesce a disorientare, stupire e allo stesso tempo spaventare, significa che è un buon horror. Poco importa che non sia granché famoso o che sia stato realizzato con un budget incredibilmente basso. Lake Mungo, una produzione indipendente del 2008 diretta da Joel Anderson,maneggia con maestria alcuni meccanismi stantii dell’horror, regalando un amalgama intelligente di found footage e mockumentary.
Proprio come in Twin Peaks, la protagonista Alice Palmer (la scelta del cognome non è casuale) fa la sua prima comparsa da morta. Proprio come in Twin Peaks, il filone narrativo si dipana a partire da un’indagine sulla sulla sua scomparsa ed esattamente come in Twin Peaks, nulla è come sembra e le mura domestiche di una tranquilla cittadina nascondono tanti squallidi segreti.
Il meccanismo messo in atto da Lake Mungo è quello delle scatole cinesi: all’interno di una storia se ne cela un’altra che ne contiene a sua volta altre. E la rassicurante – per quanto triste – logica dei fatti cede il passo a scenari sempre più surreali e spaventosi, portando un apparentemente semplice caso di morte per annegamento, e la statica narrazione del lutto, a svelare alcuni aspetti nascosti nella vita di Alice e delle persone a lei vicine.
Così i familiari si raccontano e confessano di fronte a una videocamera mentre altre videocamere creano degli inganni, puntualmente rivelati uno dopo l’altro, bugia dopo bugia, fino ad arrivare all’ultimo terrificante spezzone di video ritrovato, questa volta vero, con un finale che sarebbe davvero crudele spoilerare a chiunque non lo conosca già.
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