A ghost story. Un lenzuolo bianco svolazzante mi parla del post-horror

La prima cosa che ho fatto dopo aver guardato A Ghost Story è stata asciugare alcuni lacrimoni caldi che sono scesi meccanicamente in risposta a un qualche impulso neuronale di natura emotiva.
La seconda è stata guardarlo un’altra volta, per godermi ancora la fotografia un po’ nebbiosa e quell’inusuale formato 1:33:1 che gli calza a pennello. Per rileggere quella citazione da Una casa stregata di Virginia Woolf, rivedere la scena della torta che sa di dolore e il bellissimo monologo sul “senso della vita”.
La terza è stata immaginare di parlarne con il fantasma protagonista, lui:

D: Sei probabilmente l’unico fantasma con lenzuolo e buchi per gli occhi credibile nella storia del cinema horror, questo lo sai, sì?

R: Non che ce ne siano tantissimi, eh. Comunque A Ghost Story non è un film horror. È un film post-horror.

D: Ah. E chi l’ha detto?

R: Boh, uno del Guardian

D: Aspetta un attimo, devo prima capire cosa significhi esattamente post-horror.

R: Significa che se non ti sembra horror, allora è post-horror. Tipo It comes at night, o Personal Shopper

D: Beh oddio, It comes at night un bel po’ di tensione la trasmette. Certo, succede poco, ma non significa nulla: c’è un’ epidemia, c’è la paranoia, c’è gente che muore male. Anche Personal Shopper è terrificante, voglio dire, c’è Kristen Stewart che si cambia tanti vestiti e riceve sms da un fantasma per circa un’ora e quarantacinque minuti che vorrei peraltro riavere indietro. Insomma, non capisco. Al limite non bastava dire che è un film drammatico?

R: Ma scrivere che è post-horror fa più figo. 

D: E se dicessi “horror esistenziale”? In fondo, lo stesso David Lowery che ha messo su baracca e burattini ha detto che l’idea di A Ghost Story è nata in un momento di enorme crisi personale, con paranoie sulla fine del mondo e altri avvenimenti terribili. Ed è impossibile non riflettere sulla vita e sulla morte, sulla storia dell’umanità, sul corso degli eventi e il destino, sull’immanente e il trascendente…

R: Senti, chiamalo come ti pare. Voi vivi avete un serio problema di ansia. 

D: Facciamo che è una storia d’amore ma anche una bella variante dell’horror sovrannaturale. Tu sei morto, torni da tua moglie come fantasma, hai addosso un lenzuolone bianco, rimani sempre in casa e la guardi andare avanti con la sua vita giorno dopo giorno. Passano settimane e mesi, poi lei va via. Ma tu rimani in quella casa, cercando di recuperare un bigliettino che lei ha nascosto dentro lo stipite di una porta. Un’operazione che ti ha portato via un sacco di tempo. Non hai mai rischiato di dimenticare perché tu fossi ancora lì, come il fantasma della casa di fronte?

R: Il tempo è come l’ansia: una cosa che consuma e che appartiene ai vivi. A un certo punto per me il tempo ha cessato di esistere. Ma non l’amore. 

D: Un’ultima domanda. So che è un argomento delicato, ma cosa diavolo c’era scritto in quel biglietto che hai cercato tanto a lungo? Detesto i MacGuffin.

R: … 

Niente, non ha voluto dirlo.

 

 

 

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