Islamic Exorcist, l’horror indiano delle controversie

Quando alcune settimane fa ho visto una locandina con su scritto “Islamic Exorcist” incoronata da roboanti tagline, sono subito stata genuinamente curiosa di vederlo. Il cinema contemporaneo pullula di film-fotocopia sulla possessione demoniaca, che si rifanno per lo più alla tradizione cattolica. Con alcune eccezioni: come ad esempio il polacco Demon di Marcin Wrona, in cui a possedere è un dybbuk della tradizione ebraica; oppure Siccîn di Alper Mestçi, pasticciato horror turco su misteriosi rituali islamici di magia nera, per non parlare dei vari film popolati dai jinn, malevole creature della religione islamica. Per questo motivo o anche per semplice curiosità interculturale, gli horror dal mondo andrebbero visti, supportati e raccontati.

Nel caso di Islamic Exorcist, del regista indiano Faisal Saif, è tuttavia meglio non dire troppo della trama, il cui sorprendente plot twist finale è uno dei (purtroppo) pochi punti di forza del film. Basti sapere che la vicenda ruota intorno a una giovane coppia musulmana che adotta una bambina, i cui comportamenti lasciano pensare  sia posseduta da un demone. Sciita lei, sunnita lui, attraverso il racconto di un amore contrastato dalle rispettive famiglie, i protagonisti mostrano un interessante spaccato del mondo islamico e delle sue fratture interne. Sembra che il regista abbia addirittura subito pressioni e minacce di morte durante le riprese. E non contento, coraggiosamente Saif parla dei casi di violenza sulle donne in India, facendo riferimento all’interno del suo film a fatti di cronaca reali, agli abusi domestici, alle faide familiari, alle divisioni di casta.
Abbiamo quindi una trama strutturata con una sua complessità, qualche accenno di critica sociale, e una produzione che si allontana da certi cliché dell’industria cinematografica occidentale e ci risparmia tutte quelle trovate abusatissime e ormai venute a noia degli horror sulla possessione demoniaca: benissimo. Non per niente è stato distribuito da Cinema Epoch.

Passiamo ora alle note dolenti, con una premessa scritta a posteriori. Quando guardo un film e ne scrivo, poi per curiosità vado a vedere cosa ne pensano gli altri, ruminando recensione dopo recensione e trovando conferme, smentite, osservazioni in comune o completamente differenti. Ho fatto così anche con Islamic Exorcist, e per dieci minuti buoni ho pensato di aver guardato un altro film. Su siti e blog di settore, anche belli grandi, si plaude quasi ovunque senza ritegno alla regia, alla fotografia, al montaggio, al suono, alla recitazione.

Si parla di un film che “sconvolgerà il pubblico occidentale” e di un capolavoro ben superiore all’iraniano Under the Shadow.
Però bisogna anche dirlo che, complice forse un budget non altissimo (ma nemmeno basso, parliamo di circa 130 mila dollari), questo film pullula di errori, ingenuità e sbavature. Iniziamo da quelli macroscopici: il doppiaggio – in inglese con fortissimo accento indiano – non è in sincrono! Ma si può? Ancora. Il volume degli effetti sonori non è ben calibrato e si sente in continuazione il rumore del vento che soffia – espediente riuscito a metà per trasmettere  un senso di inquietudine – ovunque e senza soluzione di continuità. Il suono dei ceffoni è lo stesso che si sente nei film di Bud Spencer e Terence Hill. (Davvero). Ancora. La fotografia è interessante, con la sua tavolozza ipersatura, finché non si fa didascalica, differenziandosi per i diversi tipi di scene: non siamo scemi, non era necessario, grazie per la premura. Certe inquadrature sono più che amatoriali, a volte ci sono strani taglioni che interrompono scene e musica, i movimenti della camera non sono ben controllati. Ancora. La scelta di non affidarsi agli effetti speciali è encomiabile, coraggiosa, di classe. Ma bisogna sopperire con un montaggio impeccabile, ingegnoso, fatto bene. Come negli anni Settanta, ma meglio, perché sono passati quarant’anni nel frattempo e qualcosa in più si suppone sia stata imparata. E invece no.

Mi sono chiesta le ragioni di questo gigantesco iato d’opinione, riconducendole a un mix di reverenziale sensibilità artistica e prudente senso del politically correct nel giudicare un film che parla di cose legate a una cultura e a un luogo che meriterebbero sicuramente una migliore considerazione, scevra da inutili pregiudizi e senza cadere nella trappola dell’eurocentrismo, evitando quindi di valutare un’opera in base a standard tutti occidentali. Insomma, fare un film è difficile, figurarsi in India (non si può certo dire sia il classico film made in Bollywood) e con gli estremisti islamici alle calcagna. E quindi va bene andarci piano e incoraggiare. Da qui a incensare un’opera, promettere un capolavoro o parlare di uno dei film più spaventosi degli ultimi anni, però, ne passa.

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