Lavoratori indaffarati, un virus potentissimo e otto ore di mattanza in ufficio. Potrebbe sembrare la descrizione di una qualsiasi giornata lavorativa in periodo d’influenza e invece è Mayhem di Joe Lynch, corporate horror che indugia nel limbo della commedia senza risparmiare ettolitri di sangue sparso.
Derek Cho (interpretato da Steven Yeun, sì, quello di The Walking Dead) è un giovane avvocato della società di consulenza legale Towers & Smythe che incarna l’imperfetto stereotipo dello scalatore sociale: ha una coscienza, ma dà più peso alla sua carriera; vorrebbe fare la cosa giusta, ma si adegua allo spietato standard dell’ammazza-o-verrai-ammazzato tipici di certi ambienti lavorativi; il suo scopo è arrivare il più in alto possibile, sacrificando suo malgrado tempo, affetti e anima in nome del dio danaro, ma la sua azienda preferisce farlo fuori senza pietà attribuendogli un errore mai commesso e licenziandolo in tronco.
A interrompere la routine lavorativa fatta di dispetti da ufficio e ripicche protocollate è l’ID-7, un virus altamente contagioso che abbatte i freni inibitori rendendo gli infetti particolarmente impulsivi, emotivi, arrapati e violenti. La buona notizia è che non è mortale, si può curare nel giro di alcune ore, e che qualsiasi gesto compiuto sotto l’influenza del virus non è punibile penalmente, nemmeno l’omicidio. Abbiamo già capito dove andremo a parare.
Approfittando del caos generato dalla diffusione del virus e della scappatoia legale di cui sopra, il nostro avvocato proverà ad accedere agli inarrivabili piani dei pezzi grossi collocati nel più alto dei (gratta)cieli facendosi largo a suon di martello, sparachiodi, chiave inglese, forbici dalla punta non arrotondata e altri articoli di cancelleria usati in maniera impropria. E con l’aiuto di Melanie (Samara Weaving, già vista in Ash vs Evil Dead e ne La Babysitter), altra vittima delle azioni spregiudicate della società in quarantena, attuerà una scalata verso un Olimpo di divinità incravattate con tanto di metafora/morale spiattellata come un post-it dal contenuto passivo-aggressivo sulla bacheca degli avvisi: la società dei workaholic, l’eredità lasciata dagli yuppies, il mito del successo a tutti i costi, gli sgambetti dati al prossimo per arrivare primi a un traguardo fatto di frodi e scartoffie, la filosofia del do ut des e dell’eterno ricatto, l’iperproduttività in polvere sniffata su scrivanie lucide, tutti questi cliché vengono sbeffeggiati senza tanti complimenti, mentre la dignità va in congedo (retribuito) e l’assenza di freni inibitori indotta da un virus fa il paio con la mancanza di scrupoli indotta dall’avidità.
I toni, l’atmosfera, la quantità di sangue versato, la linea comica e le spietate dinamiche di sopraffazione di Mayhem ricordano molto The Belko Experiment (solo per citare uno degli ultimi horror ambientati sul luogo di lavoro), mentre l’idea del temporaneo condono di tutti i crimini, seppure con premesse molto diverse, fa pensare a The Purge (Il giorno del giudizio), la conquista di un edificio piano dopo piano a suon di botte non può non far venire in mente The Raid e il virus che modifica il comportamento umano viene qui declinato in una delle sue infinite varianti. Che gli arrampicatori sociali siano delle merde, poi, è cosa nota dall’alba dei tempi. Ma non importa quanti spunti già visti ci siano: non ci si annoia nemmeno un po’ con Mayhem, è un liberatorio bagno di violenza e di frecciatine da ufficio, le interpretazioni sono ottime e a un certo punto sbucano fuori anche i Faith No More. L’unica pecca è il continuo puntare su una morale spiegata passo passo, con tanto di finale buonista che ammicca alla filosofia della decrescita felice, all’ennesimo approdo sicuro per chi può godere di una liquidazione milionaria e decide di cambiare vita, senza rinunciare alla ricchezza, alla faccia del proletariato.
1 commento su “Mayhem: i colletti bianchi si ammazzano (di lavoro)”