Cos’è l’inferno? Com’è fatto? Potrebbe somigliare a un autobus che non si ferma mai, pieno stracolmo di pendolari maleodoranti? Potrebbe avere le fattezze di un’interminabile fila di macchine in partenza intelligente al quindici di agosto? È insomma una forma di punizione prolungata e inevitabile ma in qualche modo a noi familiare oppure un luogo metafisico svincolato dalla nostra percezione?
È il cinema giapponese degli anni Sessanta a prendersi la briga di rispondere a tali annose questioni con quello che viene ricordato per essere uno dei primi film con vocazione splatter ed elementi gore: Jigoku di Nobuo Nakagawa, che racconta l’inferno rifacendosi alla tradizione buddista e da una prospettiva (apparentemente) terrena, umana e materiale, rappresentando con quadretti vivaci tutte le possibili cause di dannazione che possono condurre a uno stadio dell’esistenza fatto di atroci sofferenze, corporee e psicologiche. Ma, sorpresa, l’inferno inizia ben prima del trapasso. E per qualcuno esiste anche una possibilità di redenzione.
Abbiamo dunque il protagonista, Shiro, che a un po’ per certe sue scelte sbagliate, un po’ per la pura sfiga di trovarsi sempre al posto sbagliato nel momento sbagliato, rovina la sua vita e quella degli altri che gli stanno accanto, generando un effetto farfalla dalla portata quasi catastrofica: si parte dall’omissione di soccorso dopo un incidente stradale e si arriva alla morte di un intero villaggio. L’uomo investito in macchina muore. La fidanzata di Shiro muore. Sua madre muore. I genitori della sua fidanzata muoiono pure. La madre e la compagna dell’uomo investito in macchina, dopo aver cercato vendetta, muoiono anche loro. Il padre di lui, medico negligente, muore. I pazienti, tutti stecchiti. I vicini di casa, i contadini, tutti muoiono e si ritrovano all’inferno per essersi macchiati di crimini più o meno gravi: omicidio, suicidio, tradimento, frode e la vicenda si dipana attraverso un susseguirsi di scene che ricordano molto gli atti di un dramma teatrale. La sensazione però è quella di trovarsi già in una dimensione infernale mentre si è ancora in vita, tra luoghi affollati da anime in pena e il continuo pungolo della sofferenza. Il passaggio dalla vita alla morte avviene senza soluzione di continuità: l’atmosfera è rarefatta e sospesa nel tempo mentre il corpo diviene oggetto di strazio.
Le punizioni dell’inferno in Jigoku non risparmiano dettagli a tinte forti (come quelle della tavolozza): i corpi vengono smembrati e scarnificati, sepolti vivi, appesi al contrario, decapitati, bruciati, infilzati, accecati, mutilati, costretti a un’eterna corsa circolare e immobilizzati in pose plastiche da manichino. Per poi rigenerarsi e ricominciare da capo.
A proposito di dolore: anche la realizzazione del film ebbe una storia piuttosto sofferta, segnata da fortissime limitazioni di budget. Ma se poi ne sono stati fatti due remake, un motivo ci sarà.