Pur con la consapevolezza che il più grande e terrificante horror del 2017 è stato proprio il 2017, ecco una selezione di film dal circuito indipendente (e non) che vale la pena recuperare, con alcune aranzulliane ma doverose precisazioni: per ovvi motivi non troverete la maggior parte dei titoli strillati, iperpubblicizzati e promossi nelle sale cinematografiche senza passare dal via, né si parlerà di tutti i sequel, prequel e reboot dei vari franchise horror sui quali sono state spese forse fin troppe parole, per onorare il concetto di “selezione”. Verranno nominati alcuni ottimi film usciti quest’anno ma realizzati in precedenza e per questo già presenti nei listoni – che vi invito a leggere – dedicati ai film horror del 2015 e ai film horror del 2016 o con rimando alla loro recensione. In base a un principio simile, mancheranno altrettanti titoli che troverete però, sempre in questi orrorifici lidi, nei prossimi mesi. La maggior parte dei film proposti non è ancora stata doppiata in italiano.
A Dark Song (Liam Gavin)
Uscito a fine 2016 ma rilasciato di fatto nel 2017, A Dark Song dell’irlandese Liam Gavin è una delle perle nascoste che il cinema indipendente ci ha regalato, come spesso accade, in sordina.
Due perfetti sconosciuti si rinchiudono in una casa isolata per realizzare un difficilissimo e pericoloso rituale che può durare mesi, che richiede sacrifici estenuanti e che, nella non scontata ipotesi in cui riesca bene, permette di incontrare il proprio angelo custode e chiedergli un favore. A condizione di non uscire mai dall’abitazione, di seguire alla lettera le istruzioni e affidarsi con piena fiducia e sincerità l’uno all’altra. Cosa potrà mai andare storto? La negromanzia è una faccenda seria e terrificante, come lo è l’elaborazione di un lutto. E se è vero che le forze del bene e del male esistono a prescindere dal fatto che vi si creda o meno, lo stesso principio si applica alla paura: in questo film ce n’è tanta, ben nascosta tra le pieghe di una pellicola a combustione lenta. Consigliato a chi ha il pallino dell’occultismo.
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A Ghost Story (David Lowery)
Chiamatelo post-horror, chiamatelo horror esistenziale, chiamatelo come vi pare: A Ghost Story è un film che spaventa ben poco ma che colpisce le corde più profonde dell’anima e risuona lì dove fa più male. In compagnia di quello che verrà ricordato come l’unico fantasma con lenzuolo e buchi per gli occhi credibile nella storia del cinema, si compie un cammino di (auto)consapevolezza etereo ma al contempo umano, immensamente complesso, paradossale e cosmico ma al contempo concreto, solido e vero – e doloroso – sul senso della vita e della morte, sulla storia dell’umanità, sul corso degli eventi e sul destino, sull’immanente e sul trascendente. Consigliato a chi crede nell’amore eterno.
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Creep 2 (Patrick Brice)
Non delude nemmeno un po’ il seguito di Creep, stessa regia, stesso magnetico protagonista (Mark Duplass) ma con l’aggiunta di una controparte femminile all’altezza delle sue fantasie malate. Ancora una volta, assistiamo alle riprese di un (finto) documentario sulla crisi di un uomo di mezz’età: ma il mostro qui gioca a carte scoperte rivelando da subito di essere un serial killer e la vittima, che non è poi così sprovveduta, rivela un patologico senso del rischio, prendendo il suo interlocutore in contropiede e puntando tutto sulla dominazione psicologica. Inizia così un panegirico di burle e contro-burle tra i due che getta benzina sul fuoco di una mente disturbata e che, ancora una volta, tiene lo spettatore sospeso tra l’inquietudine di sapere che la vittima è in trappola e lo straniamento nel non vederla fuggire a gambe levate alla prima occasione. Consigliato a chi ama i documentari.
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Cut Shoot Kill (Michael Walker)
Uno slasher con protagonista una troupe cinematografica che gira uno slasher in cui gli attori sono personaggi e i personaggi sono attori e anche gli addetti ai lavori sono un po’ attori e un po’ personaggi: Cut Shoot Kill è un tripudio di metacinema, un’altra delle chicche nascoste dell’horror indipendente di quest’anno, un film ben realizzato, basso budget e bravi attori, che attraverso una struttura sviluppata su più livelli parla in maniera non scontata di sé, del cinema, di un mondo e di un genere che, proprio come la final girl protagonista, deve farsi largo uccidendo per sopravvivere. Consigliato a chi ha velleità registiche.
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Mayhem (Joe Lynch)
Lavoratori indaffarati, un virus potentissimo e otto ore di mattanza in ufficio. Potrebbe sembrare la descrizione di una qualsiasi giornata lavorativa in periodo d’influenza e invece è Mayhem, corporate horror che indugia nel limbo della commedia senza risparmiare ettolitri di sangue sparso, liberatorio bagno di violenza e di frecciatine da ufficio in cui non ci si annoia nemmeno un po’. Notevoli le interpretazioni di Steven Yeun (The Walking Dead) e Samara Weaving (The Babysitter), innegabile l’alchimia tra i due. Consigliato a chi lavora troppo.
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Nails (Dennis Bartok)
Investita da un’auto, paralizzata, intubata, priva di voce e tormentata da orrende visioni in un ospedale in cui tutti nascondono dei segreti: non si può certo dire che il ricovero di Dana avvenga sotto i migliori auspici. I guai iniziano quando le visioni iniziano a prendere corpo in maniera proporzionale alle paranoie: allo spettatore non viene concesso il privilegio di comprendere dove finisca l’immaginazione di una donna traumatizzata e dove inizi il reale pericolo.
Nails non è niente male come primo film da regista per Bartok: c’è forse un po’ troppa carne al fuoco e qualche ingenuità banale capitata lì tra capo e collo, ma almeno viene scongiurato il rischio di una visione condita da sbadigli. Consigliato a chi è fissato con la manicure.
The Alchemist Cookbook (Joel Potrykus)
The Alchemist Cookbook, una specie di trasposizione postmoderna e distorta del mito del Faust, riveduta e corretta in chiave horror, è il racconto delle disavventure di un alchimista che ascolta musica fighissima mentre si cimenta in esperimenti chimico-alchemici e in un’evocazione. Si tratta per molti versi una pellicola sperimentale, a tratti difficile da seguire: i dialoghi sono ridotti all’essenziale, così come la trama, che racconta in maniera subliminale di una fuga dalla civiltà statunitense contemporanea capovolta e invertita di segno, proprio come un simbolo blasfemo. Altra visione di nicchia che vale la pena di affrontare. Consigliato a chi ama le passeggiate solitarie nei boschi.
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Thelma (Joachim Trier)
L’horror scandinavo tira a segno un nuovo riuscitissimo colpo con questa pellicola metafisica dalla fotografia algida e dalle interpretazioni impeccabili. Thelma è la storia di una studentessa universitaria repressa: timida e riservata, Thelma non beve, non fa tardi la notte, non ha una vita sessuale e nega a sé stessa di provare attrazione per una sua bellissima compagna di corso. Ma al di sotto della metaforica superficie ghiacciata di un quieto lago si nascondono poteri sovrannaturali e un istinto primordiale votato alla malvagità pura e non sarà certo la rigida educazione cattolica imposta dalla famiglia a permettere di domarli. Thelma è una nuova, bellissima e terrificante eroina che ricorda un po’ Il Cigno Nero di Aronofsky e un po’ Carrie di Brian de Palma. Ancora una volta una pellicola che procede lentamente, senza far balzare sulla sedia ma andando a colpire corde emotive profonde. Consigliato a chi non ha mai fatto bisboccia la notte.
The Lure
Metti una notte in uno strip club polacco due sirene, disco music in sottofondo, paillettes e luci stroboscopiche tutt’intorno, voci ammalianti e grosse code di pesce servite agli sguardi affamati degli spettatori. Aggiungi una versione un po’ horror e un po’ spinta della Sirenetta di Andersen e ottieni The Lure, un musical horror polacco che proprio come le sirene sue protagoniste è un ibrido, metà commedia musicale e metà folk horror, in grado di navigare nelle difficili acque della fiaba rivisitata per poi camminare lungo le rive dell’iperstimolazione sensoriale con un tripudio di suoni e colori. Consigliato a chi da piccolo guardava sempre La Sirenetta.
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Verònica (Paco Plaza)
Adolescenza, stress e una tavoletta ouija usata impropriamente sono un mix pericoloso e un lasciapassare pratico e veloce per le entità demoniache: una vecchia lezione nota ai più – ma evidentemente non alla protagonista di questa pellicola spagnola, l’inquieta Verònica in cerca di spiriti – che fa il paio con i soliti cliché sulla possessione che fortunatamente qui ci vengono in parte risparmiati. Non è facile declinare in maniera originale un tema tanto abusato: alcune sagge scelte registiche salvano in corner un film che ha dalla sua ottime intuizioni ma che pecca di prevedibilità. Consigliato a chi si occupa spesso dei propri fratelli.
I GRANDI ASSENTI
Ovvero alcuni film che vale la pena guardare ma che non inserirei tra i migliori del 2017:
It Comes at Night di Trey Edward Shults, (poco) horror (molto) essenziale che ruota intorno al caro vecchio tema della paranoia, del nido familiare e della paura degli “altri” attraverso un gioco di inconciliabili dicotomie dentro-fuori, bene-male, sano-infetto, famiglia-estranei che con un azzeccato processo di sottrazione basato sul non detto e sul non visto trasmette una buona dose di tensione. ⇒Leggi la recensione completa.
Kuso di Flying Lotus, pellicola sperimentale con spiccata vocazione weird popolata da escrementi, pus, esseri umani sfregiati e disagiati e altri elementi di scarto, anche registici. Intrattiene, diverte e raccapriccia ricordando in qualche modo, per tecnica e atmosfera, i video musicali degli anni Novanta. E nonostante un background di ottimo rispetto, la grande pecca di Kuso è che c’è tanto, forse troppo, ma manca la cosa fondamentale: il film. ⇒Leggi la recensione completa.
Mother! di Darren Aronofsky, pellicola odiata per lo più all’unanimità e variazione psicologico-misticheggiante del genere home invasion. Non è davvero un horror ma, semplicemente, un film di Aronofsky, anzi di Aronofsky sotto steroidi, con tutti i suoi tipici stilemi esagerati, esasperati ed esacerbati. Funziona finché sembra un incubo privato e claustrofobico di una coppia la cui quieta esistenza viene interrotta da ospiti indesiderati che iniziano a squattare la loro casa senza una ragione apparente, esagera quando inizia a rivelarsi come un narcisistico atto di onanismo celato sotto simbolici rimandi alle sacre scritture e alla storia dell’umanità. Da premiare per l’audacia e per aver denudato Jennifer Lawrence di tutto ciò che normalmente la rende insopportabile.
Patchwork di Tyler MacIntyre, comedy horror del 2015 ma sbarcata su Netflix solo alcuni mesi fa e divertente variante senza troppe pretese del Frankenstein. Il patchwork in questo caso è un assemblaggio di corpi femminili, una taglia e cuci finalizzato alla costruzione del fisico perfetto, con l’imbarazzante effetto collaterale della contemporanea presenza mentale di tutte e tre le donne che lo compongono.
Pieles (Skins) di Eduardo Casanova, non ha nulla di horror ma è popolato da esseri umani deformi in cerca di amore e accettazione, in un tripudio di effetti prostetici grotteschi. Dalla donna con l’ano al posto della bocca all’uomo dal volto sfregiato, l’umanità di Pieles è divisa tra il desiderio di condurre una vita normale e lo scontro con una realtà esteticamente ostile. Non abbastanza caustico e un po’ troppo retorico, soddisfa comunque la voglia di stranezza e avvicina a nuove frontiere del feticismo.
The Evil Within di Andrew Getty, film parecchio chiacchierato più per la sua incredibile storia che per le scarse qualità intrinseche alla pellicola: faticoso parto di un ereditiere miliardario col pallino dell’horror, della regia e della droga, realizzato con immensa fatica nel corso di sei anni, messo da parte e momentaneamente dimenticato per essere poi riesumato poco dopo la morte del regista avvenuta del 2015, costato circa sei milioni di dollari – spesi per lo più male a causa dell’inesperienza di Getty – e circondato da una fama sinistra, The Evil Within merita di essere guardato anche solo per le peripezie allucinanti che ha affrontato prima di arrivare a noi. Tra palesi errori tecnici e scene visionarie, è un film che non ha equilibrio, proprio come il suo protagonista, un giovane con problemi psichici ossessionato dal suo riflesso allo specchio e proprio come il suo creatore, un nerd del cinema ribelle e privo di freni inibitori.
The Vault di Dan Bush, interessante ibrido di generi in cui dei ladri alle prese con una grandiosa rapina in banca si trovano a fare i conti con un caveau maledetto popolato da fantasmi.
We Go On di Jesse Holland e Andy Mitton, storia di un uomo che per sedare la sua fobica ossessione per la morte va in cerca di segnali dall’aldilà, offrendo una ghiotta ricompensa a chiunque fornisca prove convincenti: il rischio di venire truffati impallidisce di fronte a quello di trovarsi a tu per tu con un fantasma, qui presentato in una declinazione ostile e paurosa. ⇒ Leggi la recensione completa.
PREMIO “NO, GRAZIE”
Ovvero i film che proprio non ce l’hanno fatta e che meritano più di un eloquente silenzio.
Personal Shopper di Olivier Assayas, thriller paranormale sulla scia di quello che è stato definito post-horror e storia di un’elaborazione del lutto in cui nulla è come sembra e nulla trova una spiegazione razionale. Non basta l’atmosfera cupa e scintillante di un mondo fatuo e solitario come quello dell’assistente allo shopping di una modella, non basta la raffinatezza di una fotografia pulita ed evocativa, non basta l’ambiguità di fondo che se non la capisci, meglio lodarla così da non passare per ignoranti: in questo film c’è Kristen Stewart che, senza mai scomporsi a cambiare espressione nel corso di centocinque interminabili minuti, riceve messaggi da qualcuno che non si sa se sia un fantasma, un’entità malefica o uno stalker, si cambia tanti vestiti, si annoia molto. No grazie, perché esistono film altrettanto eterei e raffinati, ma completi di attori e sceneggiatura.
The Crucifixion di Xavier Gens, horror sulla possessione demoniaca in cui l’unica cosa che si salva è lo sfondo, un paesino rurale dell’entroterra rumeno. Che però da solo non compensa il profluvio di cliché e jumpscare proposti in maniera gratuita e una trama rimasticata da altre pellicole. No grazie, perché dal regista di Frontiers ci si aspetterebbe qualcosa di più.