Esiste qualcosa di più inquietante dei disturbi del sonno? Di vedere qualcuno aggirarsi per casa, occhi spiritati e privo di coscienza, compiere azioni apparentemente senza senso? Di avvertire una presenza o essere gli unici a vedere ombre e arabeschi di materia oscura aggirarsi minacciosi nella stanza da letto? Di aprire gli occhi nel cuore della notte e non riuscire a muoversi né gridare? Sonnambulismo, allucinazioni ipnagogiche e paralisi del sonno sono fenomeni reali e per questo più terrificanti di qualsiasi entità paranormale. Basterebbe tenere in mente questo dettaglio – di come la realtà, con le sue sfaccettature reali e spigolose, possa spaventare più di qualsiasi mostro o apparizione – per creare un horror credibile ed efficace. Ma Slumber di Jonathan Hopkins intraprende un sentiero diverso, indugiando su jumpscare, demoni e ricostruzioni scientificamente poco accurate di fenomeni ampiamente diffusi e tipici come la deambulazione notturna, gli stati allucinatori durante la transizione sonno-veglia o le paralisi.
La vicenda di Slumber ruota intorno a una giovane dottoressa, Alice Arnolds (al secolo Maggie Q) che ha elaborato un vecchio trauma d’infanzia – la morte accidentale del fratello affetto da sonnambulismo – specializzandosi proprio nella cura dei disturbi del sonno, trattati con un rigore scientifico e una freddezza clinica che sanno di negazione. Ad agitare le acque, dopo alcuni vaghi presagi funesti, arriva la famiglia Morgan, specializzata nell’improbabile arte del sonnambulismo creativo sincronizzato: a una certa, padre madre e figlia si tirano su in contemporanea e iniziano a fare cose, cose tanto pericolose quanto complesse, come immergere la mano nel frullatore acceso, sferzare potenti pugni per aria o brandire cesoie per mutilare pelouches. Perché il caro vecchio sonnambulismo fatto di passeggiate in giro per casa e discorsi bofonchiati non era abbastanza. Mentre i tre fanno cose, il figlioletto vede gente, o meglio, viene insidiato da un’entità che lo paralizza e gli porta via pian piano la vita. E la dottoressa, tutta assorbita dalla sua necessità di negare, non ne imbrocca una con i Morgan e inizia lei stessa a finire ostaggio di una dimensione onirica che non sembra voler risparmiare nessuno, popolata da uno spirito, la Nocnitsa, che altri non è che l’incubo, per come lo intendevano gli antichi, per come appare nell’immancabile e stra-citato dipinto di Johann Heinrich Füssli, solo con un carico di ineluttabile predestinazione in più: si tratta di una maledizione che insegue soggetti specifici, i bambini, allo scopo di drenarne via tutta la linfa vitale.
Come uscire quindi dall’incubo? Forse evitando di dormire, come insegna A Nightmare on Elm Street? O magari attraverso un sacrificio?
La risposta, apparentemente semplice, viene consegnata a un finale che sarebbe ingiusto svelare o liquidare come prevedibile e che anzi rende parzialmente giustizia a un film dal potenziale enorme, che però si perde nei meandri del generico fan service per il pubblico medio dei grandi schermi, con la paradossale e ironica conseguenza di rivelarsi a tratti soporifero.
La controproposta eretica è di provare a guardare un altro film sull’argomento, The Nightmare di Rodney Ascher (2015): decisamente meno famoso, con un budget scarno ma idee migliori, questo documentario horror racconta il fenomeno delle paralisi del sonno in maniera più realistica, consegnando i racconti di visioni e paure ai soggetti direttamente coinvolti e ricostruendo la paura sul set.