Per chiunque si sia mai chiesto come possa funzionare un’epidemia zombi nelle zone rurali più isolate del Quebec, arriva a gamba tesa una produzione Netflix che, tra cliché e stilemi del genere fedelmente riproposti e interessanti incursioni surrealiste, racconta la fine del mondo attraverso le peripezie campagnole di alcuni sopravvissuti in lotta per la vita: Les Affamés di Robin Aubert.
Dei triti e ritriti comandamenti dell’apocalisse zombi sappiamo ormai tutto: assicurarsi sempre che il nemico redivivo sia stato accoppato a dovere; evitare luoghi privi di una via d’uscita; nessuna pietà per chi è stato morso, perché prima o poi si trasformerà e contagerà gli altri; scappare via da metropoli e grandi città per cercare rifugio nelle zone più remote: in montagna, in riva al mare o magari in campagna. Dove ci sono meno persone, quindi meno infetti, quindi meno rischi. Forse.
In realtà i Famelici, i morti viventi che corrono veloci e morsicano lesti, sono arrivati ovunque, persino in un villaggio del Quebec la cui densità di popolazione non sembra superare i due abitanti per chilometro quadrato. Dove le risorse iniziano presto a scarseggiare e nessun fienile sembra servire da rifugio. I sopravvissuti sono personaggi randomici, perfetti sconosciuti le cui esistenze s’intrecciano brevemente nel corso di giornate sempre uguali, vissute alla mercé di sciagure, intemperie e di terrificanti orde di zombi che – vale la pena ricordarlo – corrono piuttosto velocemente.
È lenta invece la narrazione, col suo progredire centellinato verso un cammino prevedibile: tutto ciò che potrebbe succedere a un gruppo sparuto di uomini e donne in cerca di riparo, succede. Ma con molta calma. Qualcuno viene morso a tradimento, qualcuno si sacrifica per rallentare l’orda in arrivo e permettere agli altri di salvarsi, qualcun altro paga molto cara un’imprudenza, c’è chi viene più volte salvato in extremis e c’è persino il tizio di colore che muore per primo, quasi strizzando l’occhio alla telecamera. La checklist degli elementi tipici del film di zombi è quindi al completo, ma a disfare le carte in tavola è l’avvento del surreale duro e puro, che si manifesta sotto forma di altissime torri di oggetti accumulati, impilati e in qualche modo venerati dai morti viventi, i quali le costruiscono e si intrattengono al loro cospetto per ore, immobili in contemplazione.
Quale sia l’essenza o l’origine di tale comportamento non è dato sapere. Certamente è una lontana eco romeriana, capovolta e invertita di segno rispetto a Zombi (Dawn of the Dead), che allude a un culto dei beni materiali bramati e consumati, lì in un grande centro commerciale trasformato in edonistica prigione, qui nella rude aperta campagna, tra la nebbia e l’erba alta. I beni materiali abbandonano la loro funzionalità e diventano orpello estetico e rituale per creature che hanno perso in parte la loro umanità ma che conservano un ricordo sbiadito della loro precedente condizione, e che capiscono, comunicano tra loro, si organizzano in gruppi e formano piccole comunità. Ai sopravvissuti non resta che osservare in silenzio e allontanarsi in punta di piedi da una dimensione che non è più la loro.
Budget modesto e regia elegante, Les Affamés aggiunge qualche pennellata di originalità – senza troppi stravolgimenti, com’è giusto che sia – a un genere destinato per definizione a non morire mai. La poca adrenalina e lo splatter dosato con parsimonia sono bilanciati da una fotografia pittorica e dalla continua ricerca dell’equilibrio estetico. L’horror insomma non è affatto morto: è solo andato a fare una scampagnata, in cerca di bellezza.