Scena dal film The Hypnoti Eye di George Blair

The Hypnotic Eye (1960): deturpazioni facciali, stati di trance e hype

Se c’è una lezione che s’impara pensando allo strano caso di The Hypnotic Eye, poco nota pellicola del 1960 diretta da George Blair, pubblicizzata in maniera massiccia per poi essere quasi dimenticata negli anni a venire, è che a volte il marketing non paga.
Era l’epoca della pubblicità aggressiva, delle grandi occasioni, della spensieratezza economica e il cinema, preso anch’esso da questa frenesia, ingurgitava frotte di spettatori attratti dalla voglia di novità, di tecniche di ripresa avveniristiche e di visioni coinvolgenti. Seguendo l’esempio di William Castle, prolifico regista di B-movie e produttore di Rosemary’s Baby, incoronato re dei “gimmick” (ovvero delle trovate pubblicitarie sensazionalistiche e fantasiose), la casa produttrice di The Hypnotic Eye prometteva infatti alla sua audience un’esperienza elettrizzante grazie allo spettacolo di Ipnomagia, una fregnaccia inventata su due piedi dai pubblicitari per far credere che gli spettatori sarebbero caduti realmente in stato di trance durante la visione del film, con tanto di dimostrazioni promozionali dal vivo per generare quello che oggi chiamiamo hype.

Locandina di The Hypnotic Eye

Perché il fulcro di questa pellicola dalla trama abbastanza inconsistente, con più buchi di una groviera ma densa di momenti bislacchi, è proprio l’ipnosi: un numero preoccupante di donne compie tremendi atti di autolesionismo in stato di totale inconsapevolezza, mentre l’affascinante ipnotizzatore Desmond appena arrivato in città stupisce tutti con il suo show (e con la sua somiglianza con Bela Lugosi).

the_hypnotic_eye_1960

 

 

A indagare sul caso è Dave Kennedy, il detective meno intuitivo della storia del cinema, che non riesce a collegare i due eventi nemmeno dopo aver constatato in maniera insindacabile quanto sia efficace e genuina la capacità persuasiva di Desmond, che irretisce e imbambola la sua fidanzata, l’amica della sua fidanzata e numerose altre persone che gli stanno intorno. Tra bellissimi volti femminili deturpati dall’acido, corpi muliebri ustionati e dialoghi poco memorabili, The Hypnotic Eye rivela la sua vocazione da exploitation movie, più interessato allo shock che alla sceneggiatura, e stupisce con momenti visionari, come la scena d’apertura del film, che immortala una donna in procinto di avvicinare i capelli intrisi di shampoo al fornello acceso riprendendo la scena dal basso, con un’ardita inquadratura verticale dall’interno dell’erogatore di gas. Pare che la Kodak abbia realizzato un biglietto da visita olografico raffigurante la testa della donna andata a fuoco in quella scena, poiché l’effetto speciale era stato realizzato sovrapponendo due pellicole. Ancora marketing. E chi avrebbe mai detto che questa sequenza sarebbe apparsa in un film di Diane Keaton, Heaven?

Sarà che appena prima era uscito Les Yeux Sans Visage di George Franju, che in maniera diversa e più raffinata affrontava il tema della bellezza deturpata e della maschera come barriera morale ed estetica della villain. Sarà che l’idea dell’ipnosi collettiva al cinema non deve aver entusiasmato il pubblico più di tanto, e che la promessa di “un’esperienza elettrizzante” attraverso uno spettacolo di IpnoMagia non sia stata mantenuta. O che al risveglio dallo stato di trance, critici e spettatori abbiano effettivamente dimenticato qualsiasi cosa, incluso il film. Tant’è che The Hypnotic Eye è oggi una sorta di mostriciattolo di serie B ingiustamente relegato nei meandri dell’impopolarità postuma, una pellicola non eccelsa ma singolare, resa gradevole dalla raffinata allure che qualsiasi film in bianco e nero degli anni Sessanta sembra avere.

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