Esistono due modi per approcciarsi alla visone di Hereditary, il lungometraggio d’esordio dell’americano Ari Aster che ha lasciato soddisfatti molti, perplessi altri e con la costante sensazione di essersi persi qualcosa di fondamentale ai fini della comprensione del film un po’ tutti: guardarlo una prima volta, leggere subito dopo qualche articolo-spiegone (come ad esempio questa umile guida ai dettagli, simboli e segnali all’interno del film che forse vi erano sfuggiti) e magari guardarlo una seconda volta, alla luce della nuova consapevolezza acquisita. Oppure leggere in maniera preliminare qualche articolo-spiegone (come ad esempio questa umile guida ai dettagli del film che forse vi sareste persi con l’inevitabile presenza di spoiler parecchio rilevanti sulla trama e annientamento di qualsiasi effetto sorpresa), guardarlo un’unica volta, saperla lunga, fare bella figura con gli altri spettatori e mostrare una consapevolezza quasi sospetta su dettagli, simboli e segnali sparsi qua e là lungo la pellicola. Quale che sia la scelta, da qui in avanti appariranno suddetti spoiler parecchio rilevanti.
Tutte le famiglie sono in qualche modo strane e ingombre di segreti, ma quella dei Graham stupisce per la quantità di disgrazie accorse e comportamenti bizzarri da almeno tre generazioni: c’è nonna Ellen, che appare morta alle prime scene e che da morta e da brava matriarca, seppure in absentia, tiene le fila di una serie di sfortunati e non casuali eventi che rispondono a un disegno più grande. C’è mamma Annie, artista nevrotica specializzata nella creazione di miniature e veicolo principale di ricordi, censure e sensi di colpa legati alla sua famiglia: sarà lei a seppellire il padre, che si è lasciato morire di fame in seguito a un grave disturbo psichico, e il fratello, affetto da una forma di schizofrenia e impiccatosi per sfuggire a compagnie indesiderate dentro la propria testa. Sarà lei a seppellire la madre Ellen, donna carismatica e custode di orribili segreti e sarà lei a dare (inconsapevolmente e non) il via a una nuova ondata di morti violente delle persone a lei più care.
Poi c’è Charlie, una ragazzina strana e inquieta, dotata di qualche vago potere sovrannaturale. Protégé di nonna Ellen che tuttavia l’avrebbe voluta maschio, Charlie muore decapitata da un palo della luce mentre, nel tentativo di respirare durante uno shock anafilattico, si sporge dal finestrino della macchina, guidata a tutta velocità dal fratello maggiore, diretta al pronto soccorso e sbandata per evitare un animale morto. Quando si dice sfortuna. Infine ci sono Steve, marito di Annie, unico elemento sano e totalmente irrilevante della famiglia e Peter, adolescente fattone in rapporto conflittuale con la madre e destinato, suo malgrado, a grandi cose.
Il fascino di Hereditary sta nel succedersi di fatti apparentemente scollegati tra loro ma subordinati a un piano che, a osservare bene gli indizi, viene rivelato in maniera graduale ma esplicita all’interno di una sceneggiatura ambiziosa e pantagruelica dove tuttavia ogni tanto i ritmi s’inceppano e le azioni sembrano mancare di una logica plausibile. I personaggi si muovono all’interno della casa proprio come le miniature create da Annie, primo indizio che suggerisce come essi siano manipolati da una forza più grande di loro: il Male. Che qui assume le sembianze di un culto (con l’inevitabile accostamento a Rosemary’s Baby, ma anche a Lanthimos) devoto in maniera molto statunitense a Re Paimon. Chi era costui?

Paimon è uno dei re dell’inferno e ha dalla sua una nutrita e illustre bibliografia dedicata, dalla Piccola Chiave di Salomone fino al Libro di Abramelin. Viene rappresentato come un uomo dal volto femminile in sella a un dromedario, invocato per ottenere conoscenza, potere e ricchezza. Il suo simbolo appare un po’ ovunque sin dalle prime scene del film: appeso al collo di nonna Ellen, di Annie, sul palo della luce che decapita Charlie, su libri, muri e pareti.
Quello in corso da anni nella famiglia Graham è un vero e proprio sacrificio rituale camuffato da infausta tara ereditaria. Ancora una volta è nonna Ellen a metterci in guardia, sempre all’inizio del film, quando Annie impugna una cartolina che, testualmente, recita: “Il nostro sacrificio sembrerà nulla se paragonato alle ricompense”.
Alla nonna i sacrifici non dispiacciono affatto, sia chiaro: dopo aver fatto fuori il marito e non essere riuscita a poggiare le grinfie sul suo primogenito, morto suicida perché lei voleva “mettergli persone dentro”, e sul primo nipote, dal quale viene tenuta a debita distanza da Annie, Ellen utilizza la nipotina Charlie come contenitore per il demone Paimon. La bimba che vediamo disegnare male e decapitare piccioni non è altro che un involucro gestito da un’entità malevola in cerca di un ospite migliore. Sul perché abbia poteri paranormali ma sia allergica alle noci e incapace di evitare l’ingestione delle suddette, non è dato tuttavia sapere.
È un continuo gioco di rivelazioni e silenzi, di motivazioni (non) spiegate e traumi rimossi a fare da motore dell’azione: metaforicamente, è una lotta generazionale per la contesa del potere nel matriarcato. La donna crea, la donna distrugge, la donna condanna e protegge: nonna Ellen abbraccia il male, lo invoca, ne fa uno strumento di grandezza. Annie prova a resistervi, rimuove i traumi, fa finta di non vedere, tiene incollata una famiglia di fantocci destinati a morire, cede progressivamente e si lascia possedere. Charlie incarna il male fin dalla nascita e riesce a contenerlo per un periodo piuttosto lungo, convogliandolo in quei tic e in quegli inquietanti pupazzetti creati con materiale da recupero. Tutte e tre le donne vengono decapitate, poiché Re Paimon ha corpo di uomo ma volto di donna e un equilibrio tra fisico e mente bisognerà pur trovarlo. Nessuno sembra dar troppo peso, ancora una volta, ai chiari segni di natura occulta ed esoterica presenti in casa, a nessuno sembra importare perché forse al male ci si è abituati e rassegnati. C’è un triangolo inciso sul pavimento di una stanza, ci sono parole scritte sui muri (“Satony“, “Liftoach Pandemonium” e “Zazas“, termini dal significato oscuro, di quelli che sarebbe meglio evitare di pronunciare troppe volte a voce alta), ci sono libri di invocazioni e demonologia in casa.
E mentre nonna, figlia e nipote mettono in scena una tragedia colma di spaventi e nevrosi non risolte, all’unico protagonista realmente ignaro di tutto, il giovane Peter, non resta che subire quegli spaventi e quelle nevrosi, troppo ingenuo, debole e distratto per cogliere i segnali di pericolo anche per lui disseminati ovunque – si pensi alle parole dell’insegnante durante le lezioni, lasciate in sottofondo eppure così chiare su quello che sarà il suo destino, tragico come quello degli eroi delle tragedie nominate, ovviamente in maniera non casuale; o al rapporto mancato con la nonna, che smuove le montagne in vita e in morte pur di sviscerarne l’anima. E con la madre, che odia e teme e che sembra voler cogliere ogni occasione per ucciderlo, sottraendolo a un destino poco edificante di cui è in qualche modo cosciente. E con la sorella, che sopporta il fardello a lui destinato finché eglli stesso non ne causa la morte.
Hereditary ha dalla sua un plotone di attori che recita estremamente bene, Toni Collette in testa. Ha ottime intuizioni visuali, arricchite da una tavolozza di colori finemente elaborata, dai richiami e accostamenti sempre azzeccati. Spaventa in maniera genuina evitando tanti scivoloni da manuale e non lesina nemmeno sul meccanismo di tensione e sospensione narrativa. Tuttavia, quello che è un tratto distintivo del film ne diventa al contempo il limite: la quantità barocca di dettagli più o meno nascosti e di rivelazioni da cammino iniziatico che non concedono autonomia alla fruizione della pellicola, rendendo il contesto più importante della sceneggiatura stessa. E lasciando addosso allo spettatore quella sensazione di essersi perso qualcosa di fondamentale ai fini della comprensione del film.
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