I traumi infantili sono quella cosa che quando ce li hai, ti rimangono addosso per sempre come le cicatrici, quando non li hai significa che sono stati rimossi e seppelliti nella parte più buia e nascosta di te, e torneranno a galla quando meno te lo aspetti. La protagonista di “Housewife” – secondo lungometraggio del regista turco Can Evrenol al suo primo lavoro in inglese con un cast internazionale – ha traumi talmente grossi da portarsene ancora addosso alcuni e da averne dovuti rimuovere altri. Dopo aver visto la madre squilibrata uccidere la sorella, sgozzare il padre e inveire contro invisibili presenze chiamate “Visitatori“, Holly si trova da adulta a dover fare i conti con una costante sensazione di paura, di smarrimento e di solitudine, che nemmeno una vita agiata e un rapporto apparentemente sereno col marito riescono a scacciare via. Si rivela invece provvidenziale per lei partecipare al meeting di una psico-setta, Umbrella of Love and Mind, una specie di Scientology dei viaggi astrali e del controllo dei sogni, dove viene casualmente indicata come “la prescelta” dal carismatico leader ed esperto onironauta Bruce. Che è anche un gran figo.

Da questo momento inizierà per Holly un cammino iniziatico allucinato e spaventoso fatto di confusione tra sogno e realtà, allucinazioni, menage a trois, salti nel tempo, visite dei cari defunti, sacrifici rituali, una gravidanza singolare e l’annullamento di sé in nome della divinità horror per eccellenza, mai nominata esplicitamente ma mostrata in tutto il suo tentacolare splendore nelle scene finali.
Sinossi a parte, quel che conta in Housewife è l’atmosfera fortemente permeata da certa smania citazionista, che genera una continua sensazione di dejavu, portando lo spettatore a chiedersi dove abbia già visto una determinata scena.
Un continuo susseguirsi di citazioni cinematografiche, più o meno esplicite, viene infatti dato in pasto alla macchina da presa, alle luci, ai colori, agli attori, rispondendo a una precisa volontà di Can Evrenol, che in numerose interviste ha dichiarato di voler omaggiare i suoi film e registi preferiti: Fulci, Bava, Argento – il giallo all’italiana in generale – Cronenberg, Polanski, Carpenter, Lynch. Solo per citarne alcuni, dato che a quanto pare i riferimenti sono tantissimi e sparsi ovunque nella pellicola.

La struttura del film, con un breve prologo sull’infanzia di Holly, un capitolo centrale interlocutorio e una parte finale dedicata ai peggiori incubi della protagonista, ricorda molto quella di un film sperimentale del 2009, Amer. Che già a sua volta citava esplicitamente I tre volti della paura di Bava e la fotografia dei film di Argento. E la vicenda del film, che narra di una gravidanza demoniaca, non può che essere accostata a quella di Rosemary’s Baby di Polanski. Ma si tratta di una gravidanza deformante e assurda, di un body horror a la Cronenberg, come in The Brood.
A proposito di covata malefica: i bimbi incappucciati che in Housewife rappresentano la progenie maledetta dei Visitatori, non ricordano forse i misteriosi nanetti di Phantasm di Don Coscarelli?


Il libro che la giovane donna trova nella hall di un albergo – che ricorda terribilmente un altro, famosissimo albergo del cinema horror, l’Overlook, forse ne avrete sentito parlare – mentre vaga sperduta in quello che potrebbe essere un incubo, con le pagine ancora bianche e le ultime righe intente a descrivere le sue azioni in tempo reale, porta dritti a In the mouth of madness di Carpenter; e il motivo musicale della colonna sonora, ripetuto ossessivamente, ricorda quello de La sindrome di Stendhal di Argento, tanto da sembrarne una variazione. Ancora: l’erotismo disturbato come presenza costante in scene cariche di doloroso pathos, richiama senza troppi complimenti Don’t look now di Nicolas Roeg, mentre i momenti gore strizzano l’occhio all’universo fulciano.

Una celebre scena di Shock di Mario Bava viene addirittura riproposta tale e quale:


Esistono poi altre analogie, forse meno esplicite e forse accidentali, con due film recenti parecchio discussi: Mother! di Aronofsky ed Hereditary di Ari Aster. Per Evrenol, le somiglianze col primo – una donna incinta, un marito scrittore, l’home invasion – sarebbero il frutto di un’inquietante coincidenza e si sarebbe addirittura spinto ad affermare su Twitter che se Fulci fosse stato ancora vivo e avesse fatto un rip-off di Mother!, sarebbe saltato fuori qualcosa simile ad Housewife. Vabbè.

Quanto al secondo caso, è impossibile non notare in entrambi i film la presenza di una casa in miniatura costruita dalla protagonista, il ruolo in absentia di una nonna malefica raffigurata in un ritratto con indosso un prezioso ciondolo che poi troveremo appeso al collo delle sue discendenti, l’idea della predestinazione al male come tara ereditaria, l’orrore visto e vissuto da un punto di vista femminile, la sublimazione orrorifica delle paure legate alla maternità. Coincidenze ancora più singolari se si pensa che le due pellicole sono uscite quasi contemporaneamente.
Ma cosa rimane di questo Housewife, al di là dei tanti riferimenti iconici al cinema di genere? Il film non è solo un pantagruelico rimpasto di citazioni – dalle quali rischia però di essere ingoiato, a scapito della sceneggiatura – ma un esercizio di stile ben riuscito, un’elaborazione tutta personale dei propri incubi e di quelli altrui, una dimostrazione di talento istintivo, un lavoro molto ambizioso in cui la materia prima, agitata e bollente come il magma, viene plasmata dal regista, con qualche sbavatura e con qualche difficoltà, lasciando addosso la sensazione che l’amalgama filmico abbia tentato più volte di sfuggire al controllo del suo creatore. Proprio come un sogno lucido nel quale si rimane intrappolati.
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