[RECENSIONE] THE HOUSE THAT JACK BUILT: BENVENUTI IN CASA VON TRIER

Disclaimer: questo post contiene spoiler rilevanti sulla trama.

L’origine dell’arte, il male, il cinema, l’egotismo, i discorsi deliranti, la narrazione episodica e didascalica: c’è davvero tanto di Von Trier nel nuovo film di Von Trier, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Il controverso regista danese ha partorito un horror che è una proiezione narcisistica e mostruosa di sé e del proprio lavoro, una sorta di casa ben strutturata su più piani e arredata di tutto punto con un gusto baroccheggiante per la saturazione e l’abbondanza.

Ma si tenga a mente che The House that Jack Built (La casa di Jack nella versione italiana) è, in prima istanza, esattamente ciò che sembra: un film su un serial killer, suddiviso in cinque episodi, con spiccate venature di commedia e altrettanto palesi digressioni pseudo-filosofiche. Il protagonista, interpretato con impressionante bravura da Matt Dillon, è uno psicopatico da manuale, affetto da disturbo ossessivo-compulsivo e caratterizzato da intelligenza superiore alla norma, comportamenti narcisistici, mancanza di empatia nei confronti degli altri esseri umani e specializzato nell’elaborazione di teorie deliranti a giustificazione dei propri comportamenti. Attraverso un lungo dialogo tra lui e Verge (Virgilio) – misteriosa presenza che accompagna Jack lungo un cammino del quale si comprenderanno il senso e la meta in un secondo momento – viene raccontata la vita dell’assassino dal suo deviato punto di vista. Ad ogni “incidente”  narrato corrispondono infatti delle vittime, sempre donne, osservate attraverso l’occhio del killer, che le restituisce allo spettatore morte, mutilate e soprattutto umiliate da un ricordo, distorto, che le vuole tutte incredibilmente stupide, succubi e quasi collaborative nel far sì che il loro omicidio avvenga il più facilmente possibile. E dopo tanti delitti e tanti corpi congelati, fatti scomparire grazie al provvidenziale ausilio di una grande cella frigorifera in cui ammassare ciò che avanza dei parossismi nevrotici di Jack, materia umana da orrorifico cantiere, avviene la svolta metafisica, con tanto di discesa agli inferi che comprende un pastone di riferimenti culturali misti, dai Campi Elisi al passaggio sullo Stige rappresentato come nel dipinto di Delacroix “La barca di Dante“, dal “vero suono” delle voci dei dannati all’abisso senza fine.

Eugène Delacroix, La barca di Dante
Matt Dillon e Bruno Ganz come Dante e Virgilio

Per chi non volesse limitarsi a osservare la facciata del film – comunque godibile nella sua autonomia formalmente irreprensibile – è possibile avventurarsi al suo interno, ovvero contemplare da vicino il ritratto macchiettistico ma accurato del tipico assassino seriale affetto da quel disturbo antisociale di personalità comunemente definito “psicopatia”. Sembra che Von Trier, nel costruire il personaggio, abbia ingurgitato una gran mole di informazioni sui più famosi serial killer per poi farle confluire, tutte mescolate tra loro, all’interno dello stesso individuo, che segue un pattern comportamentale tipico e verosimile, seppur un po’ troppo carico di vezzi. Il piccolo Jack mostra sin dall’infanzia una totale mancanza di empatia; inizia a sperimentare la crudeltà nei confronti degli animali e a sviluppare un disturbo ossessivo-compulsivo che lo costringerà da adulto a pulire ogni superficie in maniera maniacale: un bisogno che viene momentaneamente placato dall’uccisione delle vittime e dal poter disporre a piacimento del cadavere. Il nostro non si libera dei corpi, ma li mette in posa per fotografarli, li impaglia, li mutila, li congela, li conserva. Proprio come Jeffrey Dhamer, Jack conquista la fiducia delle vittime muovendosi con una stampella che lo faccia apparire innocuo. Le uccisioni avvengono con modalità sempre diverse e ad ogni omicidio rappresentato appare una variante: le fotografie post mortem, l’asportazione di un seno conservato a mo’ di trofeo, le compiaciute autodenunce anonime alla stampa. Una sorta di mischione tra Robin Gecht, Ted Bundy, Harvey Glatman, Jack Lo Squartatore, Richard Kuklinski e chi più ne ha più ne metta. Non ha vergogna di sé Jack, né del proprio narcisismo. Ogni episodio viene raccontato con dovizia di particolari  e facendo puntuale ricorso ad elaborate e deliranti teorie dissertatorie su una gran vastità di argomenti: l’arte, l’architettura, gli aerei da guerra, il nazismo, la poesia, la natura umana, la malvagità intrinseca di chi nasce “tigre” e il destino da vittima di chi nasce “agnello”, le tecniche di caccia, Dio. Mancano all’appello solo il bricolage, la teoria dei quanti e le tecniche d’arazzo tardo-medievali.

Per poter arrivare al nocciolo del film è sufficiente addentrarsi nello scantinato della pellicola, dove Von Trier ci accompagna di buon grado e tenendoci per mano: è un livello più profondo ma per nulla nascosto, del quale lo stesso regista non vede l’ora di parlare e far parlare. D’altro canto, già dal titolo si parla di casa, che da un punto di vista psicologico rappresenta il sé e la sfera personale; il protagonista del film si lambicca per progettare e costruire una casa che lo rappresenti e soddisfi, crea dei modelli, poi li distrugge e ricomincia da capo; tra un delitto e l’altro appaiono intermezzi riflessivi e scene degli stessi film di Von Trier. Insomma, il regista danese sembra dircelo in tutti i modi: “Guardatemi, Jack sono io. Faccio cose discutibili e faccio di tutto per farmi beccare“. A netto dei reali omicidi, s’intende.
Per Von Trier l’arte e la creazione rispondono all’impulso narcisistico e irrefrenabile di creare, provocare e mostrare qualcosa di appagante per sé stesso: come farà Jack, folgorato da un’intuizione finale, utilizzando i cadaveri delle vittime, così Von Trier con i corpi degli attori e con le sue storie, costruisce una casa che è traccia del suo passaggio nel mondo del cinema. E sogghignando mette in bocca al suo alter ego Jack i pensieri più sordidi e inaccettabili, per poi farli prontamente condannare e censurare da Virgilio, mentre tra una cosa e l’altra ci propina i frame delle sue vecchie pellicole, senza andare troppo per il sottile.

 

La casa di Jack_Lars von Trier & Bjarke Ingels
Lars von Trier & Bjarke Ingels, “The House that Jack Built”, esposta al Kunsthal Charlottenborg di Copenhagen

E se il desiderio ultimo del regista danese era di farsi odiare, suscitando ancora una volta sgomento e opinioni controverse con una bellissima pellicola la cui lunghezza non pesa quanto ci si aspetterebbe da due ore e mezza di visione, è da ammirare come ci sia riuscito realizzando un film che avrebbe però tutte le carte in regola per piacere in maniera trasversale, a patto di non cadere nel tranello teso dallo stesso Von Trier del quale, come dei serial killer, sarebbe meglio non fidarsi.

Una doverosa precisazione va infatti fatta sulla censura che coinvolgerà la versione italiana del film in uscita il 28 febbraio al cinema (vietato ai minori di 18 anni, con scene tagliate): una scelta del genere non farà altro che alimentare la fama di una pellicola che non ha assolutamente nulla di diverso da tantissime altre, magari meno prestigiose e meno chiacchierate, che mettono in scena eventi ripugnanti, uccisioni di bambini, scene dal contenuto forte e violento, sangue, vilipendi di cadavere, eccetera. Si tratta pur sempre di un film horror e un’audience dotata dei giusti mezzi culturali per capirlo (quindi non il pubblico di Cannes), non dovrebbe scomporsi troppo alla visione di sangue e cadaveri, giudicarlo “ripugnante” – perché non lo è affatto, anzi è meraviglioso, grottesco, brillante e ben realizzato – né lasciarsi influenzare eccessivamente, per quanto possibile, dall’idea che dietro la macchina da presa ci sia quel maramaldo di Von Trier, che come un ragno grasso e furbo ha preparato una grande tela e attende con pazienza che, una dopo l’altra, le vittime vi si imbriglino dentro. La casa di Jack ha un ingresso che è anche un’uscita: è sufficiente ricordarsene per non perdervisi dentro.

2 pensieri riguardo “[RECENSIONE] THE HOUSE THAT JACK BUILT: BENVENUTI IN CASA VON TRIER”

  1. Il disclaimer mi ha convinto a non leggere la recensione (potrei ripensarci nel corso della giornata, la tenuta della mia memoria è in netto declino e la probabilità che il ricordo degli spoiler si disperda nei giorni a seguire è veramente alta). Fatta questa inutile e pomposa e premessa, mi limito ad una sola domanda: come hai fatto a vedere il film prima della sua uscita nelle sale? Una risposta potrebbe essere: ‘da tempo circola online’. Stando a fonti affidabili, però – mi astengo dal fare qui i nomi – la versione che gira sul web, pur trattandosi di una versione diversa da quella mozzata dai distributori italiani, pare sia comunque cut. La director’s del regista si potrà visionare in lingua originale soltanto a partire da domani in poche e selezionate sale. Magari tu lo hai pure scritto sopra, tenevo soltanto a fare questa precisazione a mio avviso fondamentale ai fini del purismo critico ed estetico.

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    1. Ciao S, spero tu abbia poi guardato il film. Non saprei dirti sulla differenza tra il film che circolerebbe on line e quello proiettato nelle poche e selezionate sale, ma posso senz’altro dirti che prima di arrivare al cinema, il film è stato proiettato a tanti festival di cinema, anche se non in Italia, un bel po’ di tempo fa. Nonché in anteprima per la stampa. Ho poi deciso di pubblicare la recensione prima dell’uscita nelle sale, avvisando però degli spoiler il lettore.

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