Di Midsommar – in uscita il 25 luglio in Italia con l’infelice sottotitolo “Il villaggio dei dannati” – si parla tantissimo già dallo scorso anno: perché dal regista Ari Aster, apparso dal nulla e subito promosso ad astro nascente del cinema horror col suo primo lungometraggio Hereditary, ci si aspetta grandi cose. E Midsommar non delude certo le aspettative, con una messa in scena pantagruelica all’insegna dell’eccesso e della grandiosità.
[Attenzione: contiene spoiler]
Midsommar significa “mezza estate”, ma quello confezionato da Ari Aster non è il sogno di una notte, quanto piuttosto l’incubo di nove lunghissimi giorni in cui il sole sembra non tramontare mai. La vicenda vede la studentessa universitaria Dani – reduce da uno straziante lutto familiare, afflitta da attacchi di panico e imbrigliata in una malsana relazione di codipendenza affettiva dal fidanzato storico Christian che non la ama più, tutti dettagli che con ottima economizzazione narrativa il regista ci mitraglia brevemente addosso a inizio film – alle prese con la comune di uno sperduto villaggio svedese, Hårga, durante le celebrazioni rituali di una grande festa pagana dai contorni misteriosi, con tanto di riti della fertilità, elezione della regina di Maggio, balli apotropaici e assunzione di allucinogeni.
Dani si trova lì per caso, invitata di malavoglia dal fidanzato e dai suoi colleghi universitari, mossi a compassione nei suoi confronti. Disagio, senso d’inadeguatezza e paura sono gli unici mezzi con cui Dani esprime sé stessa e interagisce con l’esterno, finché la sua attenzione non convoglia sulle stranezze degli abitanti di Hårga, che parlano un’altra lingua, indossano candide e anacronistiche vesti, vivono in armonia con la natura e seguono regole di vita incomprensibili. Per accorgersi gradualmente che i riti cui suo malgrado assiste hanno dei risvolti orripilanti, tra sparizioni, suicidi programmati, mutilazioni scultoree, danze baccanali, subdole allucinazioni e grandi roghi sacrificali. E che a differenza dei suoi compagni d’avventura, lei non ne sarà vittima, ma parte essenziale.
Incubi personali, orridi feticci: l’immaginario di Ari Aster
Alcune delle ossessioni visive di Aster apparse in Hereditary tornano a fare capolino in Midsommar, assurgendo a marchio di fabbrica e inequivocabile firma del regista: prima tra tutte, l’inquadratura degli interni delle case aperti, sezionati, osservati con curiosità entomologica e con perfezionismo da interior designer, che in Hereditary si associava alla buia claustrofobia domestica di una crisi familiare e a un gioco di rimandi e allusioni della casa in miniatura, mentre in Midsommar si alterna a forme di allucinata agorafobia all’interno del villaggio, una bucolica prigione di luce in cui il sole non tramonta e da cui nessuno può scappare pur vivendo in libertà.
Poi c’è la prefigurazione degli eventi nascosta nei dettagli attraverso simboli, dipinti, miniature, bozzetti e disegni, che nel primo film aveva una portata ermetica, mentre nel nuovo, a ben guardare, appare in bella mostra sin dalle prime scene, con l’inquadratura di un grande dipinto nel quale viene raffigurato tutto ciò che accadrà, finale incluso. E ancora, l’insistenza sul corpo – e sulle sue mutilazioni, che si tratti di una spiazzante decapitazione o di un fracassamento facciale (auto)inferto poco importa. Corpi nudi di donne in età avanzata, corpi smembrati e resi statue sacre, spaventapasseri o cuciti dentro una carcassa d’orso, poco importa. Corpi nati deformi per natura e associati all’idea di purezza e di massimo legame con l’ultraterreno.
Se mi lasci ti sacrifico: un break up movie travestito da folk horror?
Complementari al versante visual dell’immaginario di Aster ci sono i temi ricorrenti, come la rivelazione misterica, il rito sacrificale, la famiglia con la sua devastante furia distruttrice, il lutto che dilania, la rinascita e infine il legame personale del regista con i fatti narrati: Midsommar infatti, definito dallo stesso Aster un “break up movie”, non è altro che la messa in scena di una storia d’amore da lui realmente vissuta, conclusasi dolorosamente e sublimata in racconto folk horror.
Per quanto concerne l’appartenenza al genere e l’aderenza al canone, se da un canto per alcune analogie di trama può venir spontaneo accostare Midsommar a The Wickerman, la celeberrima pellicola del 1973 caposaldo degli horror a tema folclore , dall’altro bisogna considerare quanto sia differente, rispetto a questo film, il percorso emotivo e narrativo legato alla protagonista, che solo dopo il coinvolgimento nei rituali pagani si concretizza in un processo di empowerment, di affrancamento da una relazione sentimentale in crisi, di trasmutazione e rinascita . Dani insomma non va a finire in una grande pira ardente, ma viene anzi incoronata e ricoperta di fiori e trattata da regina, accolta in una nuova grande famiglia e inglobata nei meccanismi parossistici del villaggio di Hårga. Le sue certezze non vengono distrutte e sbeffeggiate, ma ne acquisisce di nuove. Il sacrificio del suo (ex) fidanzato (che stanco di lei e dei suoi attacchi d’ansia vorrebbe solo allontanarsi e sfuggirle) cui assiste da complice non rappresenta la fine, ma un nuovo inizio. I respiri sincopati, l’iperventilazione provocata dalle crisi di panico cedono il passo a delle ben controllate inalazioni ed esalazioni in sintonia con tutti gli altri, come a voler indicare che quando si è distrutte dal dolore e poco centrate su sé stesse non manca certo l’aria, ma la capacità di respirarla.
Culti, location e buoi dei paesi tuoi: il mondo di Hårga, l’universo di Aster
Il villaggio di Hårga e la regione dell’Hälsingland, due dei luoghi in cui è ambientata la vicenda di Midsommar, esistono davvero, in Svezia. I rituali rappresentati, la scrittura runica, i costumi utilizzati, le leggende citate esistono davvero, ma solo in parte. Aster ha insomma creato un mondo immaginario mettendo insieme nozioni di storia, antropologia e folclore, frutto di un’intensa attività di ricerca sul campo, per poi aggiungere degli elementi di fantasia e mettere in piedi un intero villaggio con la sua architettura dal forte impatto visivo, la sua estetica, i suoi spazi rigorosamente ripartiti, come un grande palcoscenico teatrale (impossibile non pensare a Dogville). In questo modo, il regista sembra voler raggiungere lo scopo di assumere il controllo totale di un universo malleabile a scopo catartico, stabilendo le sue regole filmiche, imponendo i suoi standard: per questo la pellicola dura due ore e venti e dilata o restringe i tempi come meglio crede. Per questo la trama e la scrittura non concedono sconti. Per questo nessun aspetto della messa in scena prevarica l’altro: non è esclusivamente un film dal mero impatto visivo, eppure l’estetica di Midsommar, la fotografia con la sua tavolozza di colori luminosa e ben definita, i costumi, la cura meticolosa della scenografia – dai dettagli quasi miniati delle pitture alla geometria architetturale – non passano certo in secondo piano rispetto alla recitazione ingombrante, d’impronta fortemente teatrale, volutamente portata all’estremo (si pensi alla scena grottesca dell’amplesso corale o allo sfruttamento totale della performance interpretativa dell’eccellente Florence Pough nei panni della protagonista Dani). Non è un film incentrato sull’impatto sonoro, eppure le musiche (The Haxan Cloak, prego) e l’angosciante complesso di respiri, sussurri e grida sono parte integrante del tutto. Non è un film puramente concettuale, eppure mette in gioco un’enorme quantità di temi, riferimenti e approcci, spaziando dal piano psicologico a quello metafisico attraverso quello antropologico e culturale. Non è un horror stricto sensu, ma indugia più che volentieri nel gore e nella violenza visiva. Midsommar non si riduce infine a onanistico esercizio di stile, eppure la presenza di Aster nei movimenti di camera, nella gestione dei tempi narrativi, nella rappresentazione di incubi e ossessioni personali costituisce l’essenza e la materia prima di un’opera – inevitabili sbavature a parte data la mole mastodontica di input messi in gioco – bella, sorprendente e totalizzante, che in quanto parte di una grande produzione è agevolata nel far parlare di sé, pur senza mai ridursi a ruffiano prodotto sbanca-botteghini.