[RECENSIONE] THE LIGHTHOUSE DI ROBERT EGGERS

Il faro di un’isola sperduta, gli scalcagnati deliri di due marinai ubriachi, la loro allucinata discesa verso la follia, e a fare da sfondo il mare, perturbante ancestrale in cui si perdono il senso del tempo, dell’identità e della realtà: The Lighthouse, l’ultima fatica di Robert Eggers – già autore di quella piccola gemma folk horror del cinema indipendente che è The VVitch – unisce elementi visivi e concettuali parecchio eterogenei, dando vita a un prodotto atipico e affascinante.

Thomas Wake è un vecchio marinaio zoppo, superstizioso, affetto da incontinenza verbale e totalmente estraneo al concetto di pudore. È il guardiano del faro di un’isoletta del New England di fine Ottocento. Animato da scatti d’ira immotivati, atteggiamenti tirannici, smanie rituali e da un sospetto attaccamento alla luce del faro, della quale si occupa in maniera esclusiva, Wake trascorre le sue giornate affiancato da un giovane assistente, al quale dà il tormento con continui maltrattamenti, minacce, racconti poco edificanti e atteggiamenti fuori luogo. L’isolamento forzato e prolungato dei due sull’isola, protrattosi oltre i termini pattuiti a causa di condizioni meteorologiche apocalittiche, li porta a bere sempre più e a perdere il controllo di sé stessi e dei tanti segreti che nascondono, fino al punto da smarrire le coordinate temporali e identitarie delle proprie esistenze.
The Lighthouse ha una trama scarna e a tratti prevedibile, la sceneggiatura originale basata sull’idea – poi accantonata – di proseguire il racconto incompiuto di Edgard Allan Poe “Il Faro” e sulla vicenda realmente accaduta della tragedia al faro delle Smalls, arricchita però da un massiccio intervento sul fronte tecnico, estetico, recitativo, linguistico, simbolico e concettuale. La regia e la fotografia rispondono alla volontà di realizzare un film ambientato alla fine dell’Ottocento e girato alla maniera degli inizi Novecento, da cui la scelta del formato 1,19: 1, di un certo bianco e nero, dei 35 mm e addirittura di lenti degli anni Trenta per simulare la resa di una pellicola ortocromatica. I riferimenti visivi sono numerosi e per nulla scontati: si passa da veri e propri omaggi iconografici alle opere di pittori simbolisti come Jean Delville e Sascha Schneider – fedelmente trasposte in alcune sequenze – a richiami cinematografici peculiari, come L’ora del Lupo di Ingmar Bergman, Shining di Stanley Kubrick e Twin Peaks di David Lynch. Fanno bella mostra di sé anche i riferimenti letterari, dalla Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge al Moby Dick di Herman Melville, dal senso di terrore inenarrabile scaturito dalla visione di entità terrificanti provenienti dall’abisso tipicamente lovecraftiana all’uso di un linguaggio desueto, tutto invocazioni e gergo americano antico, che attinge a piene mani dai racconti di Sarah Orne Jewett.

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Sascha Schneider – Hypnosis

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Jean Delville

Al di là delle fascinazioni visive, la bellezza di The Lighthouse risiede tutta nel gioco delle parti tra personaggi e nella bravura interpretativa degli attori principali – Willem Dafoe e Robert Pattinson – che insieme superano una difficilissima prova recitativa al limite dell’esasperazione. Ogni personaggio ha infatti in dotazione un doppio, una personificazione mitologica e un alter ego simbolico: l’anziano marinaio Thomas Wake, un chiacchierone collerico all’apparenza innocuo, si rivela ben presto un perfido manipolatore, una rappresentazione abbastanza inequivocabile della divinità marina Proteo e più in generale un simbolo di instabilità, mutevolezza e ambiguità. Il doppio del giovane Thomas Howard/Ephraim Wilson, nascosto proprio in questo nome rubato all’uomo che ha ucciso tempo addietro, fa la sua comparsa tra incubi, allucinazioni e scambi d’identità, mentre i continui tentativi di raggiungere la luce proibita del faro fanno di lui un Prometeo in crisi, che al contempo si ribella ma viene ammaliato da leggende e visioni: un chiaro simbolo di confusione identitaria e di contrasto tra vecchio e nuovo, tra bene e male, tra realtà e immaginazione. A sconvolgere le vite di entrambi, è il mistero, incarnato ora dalle sirene, ora dalla luce del faro, con la loro carica di sensualità mortifera.

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Il rapporto tra i due uomini è complice e conflittuale a fasi alterne, fatto di dialoghi odiosi, silenzi insopportabili e scandito al ritmo di incubi, ubriacature, storie inventate e défaillance, con una lieve quanto inaspettata venatura comica a fare da collante e una dichiarazione d’intenti palese sin dalle prime scene, con tanto di rottura della quarta parete.

Con The Lighthouse, Eggers effettua una scelta coraggiosa e impopolare e si fa carico di un obiettivo estremamente ambizioso, facendo convergere il proprio amore per il cinema e la voglia di raccontare in maniera storicamente accurata l’horror folk del Nuovo Mondo all’interno di una pellicola tecnicamente perfetta e di difficile fruizione, in cui la superstizione e la tensione psicologica che ne deriva assumono tramite i personaggi le sembianze di un orrido trasumanare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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