L’horror folk è quel fortunato e prolifico sottogenere dell’horror che da più di quarant’anni racconta le paure legate al metafisico, ad antiche e misteriose tradizioni popolari e al rapporto tra uomo e natura, con particolare riferimento agli ambienti rurali e isolati. Si tratta di un insieme estremamente vasto e variegato che include centinaia di titoli. Questa lista propone una selezione di film – da alcuni dei più celebri ai meno conosciuti – su magia nera, maledizioni e malefici, pur non soffermandosi troppo sulle pellicole dedicate specificamente alle streghe, per lo meno quelle della tradizione europea, che sono tante e meritano un elenco a parte: ecco perché non verranno inclusi titoli come ad esempio Suspiria, The VVitch. Ma prima, è necessario fare una doverosa riflessione e premessa.
Horror, abbiamo un problema
È oramai noto come e quanto il cinema e la sua rappresentazione (vale a dire i canoni universalmente tramandati che fanno sì che certi film siano più celebri e accessibili di altri) siano stati – e siano ancora, sebbene in misura lievemente minore – biancocentrici, ossia gestiti da bianchi, con protagonisti bianchi e rivolti quindi a un pubblico essenzialmente bianco, appannaggio quasi esclusivo dei privilegiati per eccellenza. E l’horror non ha certo fatto eccezione. La nostra cultura ha un problema: tende a rappresentare le altre secondo i propri standard, talvolta ridicolizzandole, molto spesso fornendone un’immagine distorta. E nell’indagine sui film horror dedicati a usanze, culti e rituali di altri paesi questa tendenza emerge forte e chiara: i romanì vengono rappresentati in maniera caricaturale, gli afrodiscendenti sembrano avere come unica priorità quella di praticare tremendi rituali voodoo per sconvolgere le vite di ignari visitatori bianchi, gli unici nativi americani pervenuti sono gli spiriti assetati di vendetta dei famigerati “cimiteri indiani” sui quali sono state costruite le case dei bianchi, e via discorrendo. Si tratta di un discorso complesso (che travalica abbondantemente i confini del cinema per scomodare lo status quo e l’antropologia), fatto un po’ di appropriazione culturale e un po’ di candida ignoranza di matrice hollywoodiana, ma escludere da questo listone i film horror caratterizzati da una scarsa accuratezza antropologico-culturale avrebbe significato in fin dei conti escluderli quasi tutti: meglio quindi (ri)conoscerli, prenderne atto e magari andare in cerca di pellicole alternative e di nicchia. Delle quali il reperimento e la fruizione saranno inevitabilmente più difficoltosi (e anche questo è parte del problema).
Disclaimer: in questo post, evidenziati in verde, sono inseriti numerosi link con informazioni aggiuntive per chiunque volesse approfondire la conoscenza di determinate nozioni.
Voodoo, Hoodoo e quei dannati zombi d’annata
L’immagine vaga, distorta e quasi sempre errata che il pubblico occidentale ha del Voodoo (o Vodun) è forse il caso più eclatante di cinema che influenza irrimediabilmente l’immaginario collettivo: perché il Vodun è innanzitutto una religione – e non una pratica di magia nera – che combina insieme elementi di più culture ma che davvero ben poco ha a che fare con quelli che invece proprio il cinema ha proposto come simboli per eccellenza legati al culto animista, ossia le cosiddette bamboline voodoo e gli zombi.
Le prime sono più legate al Hoodoo – questo sì, che è una pratica magica – e al Voodoo della Louisiana, parecchio contaminato dalla vocazione spiccatamente commerciale in quel di New Orleans. Quanto agli zombi, fanno parte del folklore haitiano, che non coincide certo automaticamente con il Vodun. Ma per il canone cinematografico, il Voodoo è invece proprio quello dei pupazzetti infilzati da spilloni e dei cadaveri reviviscenti, di oscuri sacrifici e incurabili maledizioni: titoli celeberrimi come White Zombie (1932, Victor Halperin) o I waked with a zombie (1943, Jacques Tourneur) sono esempi perfetti di come un film possa sovrapporre significati nuovi e cucire addosso ad un’antichissima tradizione una veste nuova, di certo affascinante ma ben poco fedele al vero.
THE HOUSE ON SKULL MOUNTAIN
[USA 1978, regia di Ron Honthaner]
Una lugubre magione in cima a un monte dall’evocativa forma di teschio, l’eredità della proprietaria di casa spartita tra quattro discendenti che la conoscevano a stento, la morte che sopraggiunge per ognuno di loro in maniera improvvisa e a dir poco sospetta, le tracce di rituali di magia nera legati a pratiche voodoo: The House on Skull Mountain è un curioso film nato sotto il segno della Blaxploitation (il cast è composto per lo più da attori afroamericani) che alterna dialoghi malamente abbozzati a scene di forte impatto visivo, dove al fascino quasi goticheggiante della casa stregata si affianca la rappresentazione spettacolarizzata ed eclatante dei rituali di magia nera.
IL SERPENTE E L’ARCOBALENO
[USA 1988, regia di Wes Craven]
Quando nel 1968 George A. Romero dava alla luce “Night of the living dead” – considerato il primo film di zombi nel senso contemporaneo del termine – la tradizione del morto vivente legato ai rituali “vudù” di remote isole caraibiche iniziò a declinare, per cedere il posto a processi di vita dopo la morte legati a virus, morsi e contagi. Eppure vent’anni dopo, Craven ha deciso di tornare ad Haiti per parlare di zombi con un approccio curioso, creativo e in fin dei conti più attendibile rispetto ai suoi predecessori attraverso una storia dalla sceneggiatura corposa. Al centro della vicenda c’è la ricerca di una mirabolante droga creata ad Haiti che rallenterebbe i processi vitali al punto da condurre a uno stato di morte apparente e che tornerebbe molto utile a una casa farmaceutica sotto forma di potente anestetizzante naturale. Un giovane antropologo viene dunque mandato nell’isola per investigare sul caso (realmente accaduto e riportato nel reportage “The Serpent and the Rainbow” sul quale si basa il film) di Clairvius Narcisse, un uomo che sarebbe tornato in vita proprio grazie all’uso di questa sostanza. La carne al fuoco in questo film è parecchia, dalla vicenda principale che si dipana lungamente, alle storie collaterali che arricchiscono il plot. E pur non avendo reali pretese documentaristiche, Il Serpente e l’Arcobaleno concede una discreta attenzione al vudù, alle sue cerimonie, alle figure dello stregone (bokor) e del sacerdote (houngan) e una generale volontà di non soffermarsi solo sulla mera spettacolarizzazione di inquietanti – quanto sconosciuti – rituali ma di restituire un racconto ben contestualizzato.
THE SKELETON KEY
[USA 2005, regia di Iain Softley]
L’Hoodoo, una forma di magia popolare parecchio in voga nel sud degli Stati Uniti, può fare grandi e terribili cose, ma a una condizione: bisogna credervi. Non ci sono spilloni conficcati su bamboline, unguenti e canti rituali che tengano: solo chi crede funzionino può beneficiarne o esserne colpito. Questa la premessa indispensabile di Skeleton Key, che ha dalla sua il merito di spiegare cosa sia l’hoodoo e di confezionare una vicenda feroce e oscura con un plot twist finale spiazzante, grande valore aggiunto di un film che racconta le terrificanti scoperte che la giovane infermiera Caroline fa nella casa dei Deveraux, ove presta servizio e cure per un anziano signore reso muto e paralitico da un ictus.
ZOMBI CHILD
[Francia 2019, regia di Bertrand Bonello]
Il libro “Il serpente e l’arcobaleno” – che ha fatto da base per la sceneggiatura dell’omonimo film di Wes Craven di cui sopra- racconta come già detto la storia realmente accaduta di Clairvius Narcisse, un uomo haitiano riportato indietro dalla morte e vissuto per anni in uno stato in tutto e per tutto assimilabile a quello di uno zombi – privo di volontà e memoria. Uno dei due filoni narrativi di Zombi Child racconta il commovente dipanarsi di questa storia nel corso degli anni, per poi collidere con il tempo presente, in cui la nipote di Clairvius Narcisse, sopravvissuta al terremoto di Haiti del 2010 e parzialmente integrata nel contesto ovattato, privilegiato e bianco di un prestigioso istituto scolastico francese, rivela alle amiche della sorellanza in cui è entrata a far parte l’incredibile segreto della sua famiglia. Una delle sue compagne, affascinata dai racconti di magia, ritiene sia una buona idea intraprendere un rituale con l’aiuto di una mambo e lasciarsi attraversare dagli spiriti per poter entrare in contatto con l’anima del ragazzo che ama (e che non sembra ricambiare). Il risultato? Un mezzo disastro le cui conseguenze non sono però affatto chiare. Sembra una metafora del film stesso, che nel tentativo di raccontare una storia – quella di Narcisse, quella di un “vero” zombi, con dei ritmi avvincenti e una linearità plausibile – pasticcia terribilmente quando va a sovrapporre l’altra storia, quella di una ragazzina viziata che fa del vudù l’uso improprio che ne aveva già fatto il cinema e lo usa per cucirsi addosso una veste che non le appartiene, non si sa bene perché e con quali risultati. Nel complesso, la lentezza e l’inconsistenza delle azioni penalizzano parecchio Zombi Child (che, con buona pace dello spettatore sempre più frustrato, non è esattamente un horror né tanto meno un film di zombi stricto sensu). C’è di buono che in questo film la narrazione cinematografica tradizionalmente riservata alle storie di zombi e vudù haitiano fa un salto generazionale e culturale e vira in maniera subdola ma decisa in direzione moderna, anzi postmoderna, dato che anche le cose più importanti – come le proprie radici – sembrano perdere di importanza per continuare invece a pulsare sottopelle, mimetizzate ma non nascoste in uno sfondo confuso e rumoroso di parole e contesti liquidi, talvolta oggetto di curiose speculazioni antropologiche, talvolta orgoglioso ricordo di antichissimi valori al cospetto dei quali non si può che rimanere in rispettoso silenzio.
Spetta infine una menzione d’onore per due bei film che non sono in alcun modo ascrivibili come appartenenti al genere horror, al di là di tutte le possibili considerazioni su cosa possa essere considerato horror e cosa no. Si tratta di Eve’s Bayou, film drammatico del 1997 diretto dalla regista afroamericana Kasi Lemmons e di Mezzanotte nel giardino del bene e del male, pellicola diretta nello stesso anno da Clint Eastwood: parlano entrambi del Voodoo, in maniera estensiva il primo, trasversale il secondo. Da vedere.
Santeria (e Macumba, Brujeria) portami via
Parente stretta del Vodun e del Candomblé, anche la Santeria ha dovuto sorbire una buona dose di incomprensioni – già a partire dal nome, conferito in senso dispregiativo dai coloni spagnoli per indicare l’eccessiva devozione dedicata ai santi dai praticanti di questo culto, gli schiavi africani, costretti a camuffare il loro credo d’origine trasferendolo sulle figure dei beati. Una simile sfortuna terminologica è spettata alla Macumba, che la nostra cultura associa storicamente solo a rituali di magia nera e a pratiche ostili, di malaugurio (ma la realtà è un po’ diversa). Dev’essere per la fascinazione esercitata dalle pratiche come quella del sacrificio animale, con tanto di spargimento di sangue, spesso alla base dei rituali: eppure i film horror dedicati in maniera specifica alla Macumba, alla Santeria e ai rituali della Brujeria – assimilabile quest’ultima, con buona approssimazione, alla stregoneria – sembrano essere davvero pochi:
I MISTERI DELLA MAGIA NERA
[Messico 1958, regia di Miguel M. Delgado]
Un ingenuo archeologo con il pallino degli oggetti magici si trova invischiato nell’eterno conflitto tra ragione e superstizione, tra scienza e occulto, tra bene e male quando entra in contatto con una potentissima maga, che sembra conoscere e praticare rituali di stregoneria risalenti al XV° secolo e ritenuti oramai scomparsi. Si tratta di un film vecchio stampo, certamente non il più rappresentativo della categoria, in cui fanno confusamente capolino cenni su vecchie superstizioni realmente esistenti e pratiche inventate di sana pianta. Ma la messa in scena è solida e gradevole, in linea con gli horror goticheggianti degli anni Cinquanta e Sessanta.

CAUTIVO DEL MAS ALLà (AKA NARCO SATANICO AKA TERROR, SEXO Y BRUJERIA)
[Messico 1968, regia di Rafael Portillo]
In questa pellicola messicana di fine anni Sessanta la Brujeria fa da sfondo e al contempo da motore dell’azione per una vicenda di amore non corrisposto, a metà strada tra horror e telenovela, in cui gli effetti nefasti di un maleficio si accavallano a scene blandamente erotiche, mentre capita che a una lunga e quasi soporifera sequenza di un processo in tribunale si alterni la scena grottesca e surreale dell’incontro con Satana (mascherato!) in un cimitero. Esiste una curiosa ragione per tale andamento schizofrenico: la prima versione del film, girata e montata nel 1968, era stata concepita come un dramma romantico. Sedici anni dopo, nel 1984, sono state girate e aggiunte le scene horror con diavoli, occhi spiritati, balli in topless e altre amenità in modo da convertire la pellicola in qualcosa di completamente diverso.

MACUMBA SEXUAL
[Spagna 1983, regia di Jesús Franco]
Una bellissima e giunonica regina della Macumba seduce e attira a sé un’ingenua francesina mettendo in atto singolari rituali basati su palpatine oniriche e sacre fellatio a statuette di giada falliche: quali saranno le sue vere intenzioni? Difficile a dirsi, così come è difficile intuire quale sia il legame tra la macumba e le bizzarre pratiche sessuali mostrate. Non è di certo la migliore pellicola di Franco e non è nemmeno un brutto prodotto, perché nasconde alcune aspetti piuttosto intriganti, dall’atmosfera trasognata alla scelta di girare sempre in diurna, ma è un perfetto di esempio di come non si dovrebbe rappresentare – sconvolgendolo – un culto.

THE BELIEVERS
[USA 1987, regia di John Schlesinger]
Qual è il collegamento tra un susseguirsi di orrendi omicidi seriali avvenuti a New York e la Brujeria? Apparentemente nessuno, eppure le vittime sono bambini immolati su altari sacrificali e gli oggetti rinvenuti sulle scene del crimine parlano chiaro: c’è una setta di ricconi nella Grande Mela che pratica un culto i cui rituali traggono ispirazione da quelli della Brujeria. Spetterà a uno psichiatra, coinvolto nelle indagini sugli omicidi, scoprire tutto sulla setta e farci i conti in prima persona. Nonostante una certa attenzione ai dettagli, interpretazioni convincenti e un buon equilibrio tra sensazionalismo orrorifico e accuratezza nella rappresentazione dei rituali oscuri, The Believers propone una messa in scena decisamente sotto tono e diluita, che non tiene incollati allo schermo e in alcuni momenti annoia addirittura.
PERDITA DURANGO
[Messico 1997, regia di Álex de la Iglesia]
Lei ha il grilletto facile. Lui, quando non è troppo impegnato con lavoretti da criminale, officia dei rituali di magia nera piuttosto teatrali e sanguinolenti. Dal loro passionale incontro nascono scintille, una lunga scia di violenze e omicidi e uno sgangherato sequestro di persona. Perdita Durango e Romeo Dolorosa sono dei natural born killers, due psicopatici dominati da istinti primordiali, dall’aspetto diabolico e dall’atteggiamento folle. Sembra davvero di vedere due démoni all’opera, votati all’estremo, dannatamente divertenti, inconsapevoli dei propri limiti e incuranti di qualsiasi regola, divina e umana.
L’Indonesia, la magia nera e le teste volanti
A quanto pare in Indonesia la magia nera è una faccenda seria: in molti ci credono, al punto da cimentarsi nella caccia alle streghe (e agli stregoni); il governo ha tentato più volte – senza successo – di arginare il fenomeno dei dukun santet (sciamani che praticano sortilegi) creando delle apposite leggi per vietare la pratica della magia nera, trovandosi ogni volta al cospetto di un’impasse legislativa: come rendere illegale qualcosa di cui non è possibile provare l’esistenza? Così ha emanato un disegno di legge che vieta parlarne, scherzarci su e soprattutto promuoverla come prestazione personale. Il mondo del cinema però non sembra essersi scomposto troppo, e nel corso degli anni ha sempre proposto film horror su oscuri rituali, specializzandosi nel glorioso filone delle “teste volanti“:
LEàK (MYSTICS IN BALI)
[Indonesia 1981, regia di H. Tjut Djalil]
Una giovane donna, armata delle migliori intenzioni, si reca a Bali per essere iniziata ai segreti della magia nera. Una potente strega del posto la accontenta, salvo però trasformarla in una testa vampiro volante con gli organi interni penzoloni. È una storia esemplare di ubris con protagonista la tipica parvenu occidentale che subisce il fascino “esotico” di ciò che non capisce e tenta quindi di appropriarsene. Non esistono parole per descrivere il pauperismo degli effetti speciali nelle scene più iconiche, da quella del distaccamento della testa dal corpo a quella della trasmutazione animale delle streghe in maiali, che da sole valgono la visione dell’intero film. Considerato il primo horror indonesiano indirizzato a un pubblico internazionale e per questo dialogato in inglese, Leàk ha dalla sua il merito di raccontare l’affascinante mito del Penanggalan, un’entità vampirica presente nel folklore del sudest asiatico che in Indonesia viene chiamata Leyak e che si caratterizza per l’intrigante capacità di far volare via la propria testa separata dal corpo, nel corso della notte, andando a caccia di neonati e giovani donne.
RATU ILMU HITAM (THE QUEEN OF BLACK MAGIC)
[Indonesia 1981, regia di Liliek Sudjio]
Dopo essere stata abbandonata dal ragazzo che ama, Murni, accusata di aver causato la morte della sua rivale in amore attraverso la stregoneria, viene linciata e poi scagliata brutalmente giù da una collina per punizione. Un misterioso personaggio la salva, la cura e la rende edotta delle più pericolose pratiche di magia nera, dandole la possibilità di vendicarsi, soprattutto sugli uomini. La morte sopraggiunge per molti abitanti del villaggio, che si coalizzano per provare a fermare la strega. Notevole la scena in cui un uomo viene indotto all’auto-decapitazione attraverso l’uso delle proprie mani, in barba a qualsiasi legge della fisica, e la testa ora libera dal corpo vaga tra gli abitanti del villaggio a seminare morsi e panico. Di questo film esiste anche un remake omonimo del 2019, che non segue fedelmente la trama originale ma che in compenso propone effetti speciali di gran lunga più curati e convincenti.
PENGABDI SETAN (SATAN’S SLAVES)
[Indonesia 2017, regia di Joko Anwar]
Una sfortunata famigliola, caduta in disgrazia dopo la malattia e la morte della madre, inizia ad assistere a inquietanti apparizioni nella casa in cui vive e che vorrebbe abbandonare e vendere per ripagare i tanti debiti contratti in passato. La prima cosa da sapere su Satan’s Slaves è che si tratta di un remake: l’originale, girato nel 1982 da Sisworo Gautama Putra, ebbe parecchio successo in Indonesia, diventando uno degli horror più celebri del periodo. Ripreso e rimaneggiato poi dal regista di punta dell’horror indonesiano Joko Anwar, questo film ha valicato i confini del sudest asiatico e fatto breccia tra pubblico e critica occidentali. Sarebbe però un peccato rivelare quale sia il collegamento tra le due pellicole e la magia nera: basti sapere che nella prima, in linea con il trend del periodo, c’è un riferimento più marcato alle pratiche di stregoneria e a vecchie superstizioni, mentre la seconda prende una direzione leggermente diversa, concentrandosi meno sui rituali e più sul frenetico alternarsi di fughe e spaventi.
PEREMPUAN TANAH JAHANAM (IMPETIGORE)
[Indonesia 2019, regia di Yoko Anwar]
Una ragazza torna nel remoto villaggio di nascita alla riscoperta delle proprie origini e in cerca di un’improbabile eredità ma si ritrova invischiata in una brutta faccenda di maledizioni e magia nera. Presentato al Far East Film Festival 2020, Impetigore regala una più che soddisfacente esecuzione tecnica, una fotografia calda e priva di sbavature, una buona percentuale di sangue e violenza e la valorizzazione scenica di elementi fortemente caratteristici, come la foresta indonesiana o come le marionette del Wayang Kulit, il teatro delle ombre giavanese. Quel che il film non regala, invece, è una narrazione avvincente, oscillando in maniera brutale tra momenti di stasi pressoché totale e altri di eccessivo clamore, a scapito dell’armonia compositiva generale. Tra un tentativo di jumpscare e l’altro, l’atmosfera va diradandosi fino a sparire quasi del tutto, paradossalmente, nel grandioso finale a sorpresa.
Il kung fu mistico di Hong Kong
Il cinema di Honk Kong ha una storia lunga, gloriosa e importante (anche per il cinema occidentale) i cui fasti sono stati rappresentati, dagli anni Trenta fino alla fine degli anni Ottanta, dallo studio di produzione dei fratelli Shaw, meritevole di aver prodotto film come La 36esima camera dello Shaolin o Cinque dita di violenza ma anche alcuni deliranti, pantagruelici, stroboscopici horror in salsa wuxia in cui fanno la loro comparsa, in maniera promiscua e con spiazzante disinvoltura, combattenti invischiati in qualche modo con pratiche di magia nera, santoni guerrieri, Buddha dispensatori di benedizioni e di consigli pratici su come far fuori il nemico, spiriti in cerca di vendetta, oggetti animati o maledetti, e via discorrendo.
THE BOXER’S OMEN
[Hong Kong 1983, regia di Chih-Hung Kuei]
Un boxeur in cerca di vendetta per il proprio fratello, reso invalido da un colpo inferto a tradimento durante un incontro di lotta, viene suo malgrado coinvolto in un’ingarbugliata avventura a base di magia nera, allenamenti trascendentali e peripezie di ogni sorta. Suo alleato è un monaco tailandese in parziale stato di automummificazione che allenerà il boxeur in cambio di aiuto contro un potente e malvagio mago oscuro. Interverranno pipistrelli, teste volanti, creature ovoidali e melmose, una donna riportata in vita da dentro la carcassa di un gigantesco coccodrillo, statue semoventi e altri marioli. The Boxer’s Omen è un’estasi visiva, un lungo viaggio di sospensione dell’incredulità e di iperstimolazione sinestetica e un grande cult degli anni Ottanta.
REN PI DENG LONG (HUMAN LANTERNS)
[Hong Kong 1982, regia di Chung Sung]
Due maestri di kung fu, divisi da una storica rivalità, si trovano a combattere fianco a fianco per contrastare un misterioso e potentissimo nemico comune, che si presenta con indosso un bizzarro costume scimmiesco e che rapisce, uccide e scuoia le sue vittime per creare pregiate e bellissime lanterne magiche con la loro pelle.
Tra combattimenti spettacolari a suon di ventagli (vedere per credere), calci volanti, acrobazie funamboliche, scene di pacato umorismo e le crude sequenze degli scotennamenti, Human Lanterns richiama la tradizione degli oggetti realizzati in pelle umana, piuttosto diffusa in ambiti stregoneschi e di magia nera.
BLACK MAGIC WITH BUDDHA
[Hong Kong 1983, regia di Lieh Lo]
La magia nera dà, la magia nera toglie: è l’amara lezione impartita al protagonista di questa pellicola, che nel tentativo di ottenere benessere e ricchezza compie un assurdo rituale servendosi di un cervello-demone estratto da una mummia e pentendosene ben presto. Non capita tutti i giorni di osservare un cervello magico pulsante allo stato brado, qui mostrato in tutto il suo gelatinoso splendore mentre respira affannosamente, molesta gli abitanti della casa, spaventa nel corso della notte e possiede infine il corpo del suo evocatore: per fortuna interviene Buddha, che incarica un esorcista di occuparsene, con l’aiuto di Brahma, il dio dai quattro volti che si presenta sotto forma di statua dorata. Forse non il miglior horror della gloriosa tradizione hongkonghese, ma di certo tra i più deliranti e memorabili.
L’eterna vendetta dei nativi americani
Non è stato sufficiente aver conquistato e distrutto le loro terre d’origine, averli scacciati, raggirati e sterminati: anche il cinema ha riservato un trattamento poco generoso ai nativi americani, che per molto tempo nei film western sono stati rappresentati solo come dei selvaggi ottusi e aggressivi, nemici giurati di aitanti cowboy, dispensatori di scalpi e, in fin dei conti, come personaggi negativi. Con buona pace dei ruoli importanti, rappresentativi e culturalmente appropriati. L’ horror, dal canto suo, si è servito infinite volte del topos farlocco del “cimitero indiano“, un terreno sacro su cui graverebbe una maledizione pronta a perseguitare chiunque costruisca, scavi o metta piede in territori destinati alla sepoltura dei morti. Da questa semplicistica rielaborazione statunitense del senso di colpa derivano i tantissimi rimandi alla supposta sete di vendetta dei nativi americani dei confronti dell’uomo bianco e alla maledizione conferita in absentia da spiriti erranti di morti e sepolti: dall’esempio più celebre dei Mi’kmaq di Pet Cematary (1989, regia di Mary Lambert) a quello degli spiriti folli degli antichi abitanti Shinnecock in Amitiville Horror (1979, regia di Stuart Rosenberg), si tratta sempre di invenzioni cinematografiche che hanno condizionato prepotentemente l’immaginario collettivo.
MANITù, LO SPIRITO DEL MALE (THE MANITOU)
[USA 1978, regia di William Girdler]
Un’escrescenza in costante aumento sul collo di una giovane donna di San Francisco si rivela essere il feto di un potente e malvagio spirito nativo americano, un Manitù appunto, della peggior specie. E se la scienza viene costretta ad arrendersi, impotente al cospetto di forze sovrannaturali occulte, soltanto un guaritore delle riserve potrà tentare di mandare via il male, prima che sia troppo tardi. In un’ inesorabile progressione di inquietudini e paura, The Manitou conduce verso la rivelazione finale della mostruosa creatura affiancandosi ai migliori body horror in circolazione. Pur mancando di accuratezza nel restituire la cultura nativo-americana e pur proponendo un attore di origine siriana per il ruolo del guaritore Sioux, The Manitou si lascia perdonare queste due gravi pecche dando alla luce uno dei mostri più strani del panorama horror contemporaneo.
SCALPS
[USA 1983, regia di Fred Olen Ray]
Un gruppo di studenti di archeologia si avventura in una riserva indiana, contravvenendo a tutti i moniti possibili e immaginabili, per fare razzia di artefatti lì sepolti. L’immancabile spirito evocato dalla violazione dei territori sacri metterà in atto una tremenda vendetta a suon di scalpi. Nonostante si tratti di un B-movie a budget più che ridotto, la portata surreale delle scene iniziali, gli effetti prostetici artigianali e la tenuta tutto sommato dignitosa della messa in scena fanno di questo slasher una godibile variazione sul tema.
SHADOW OF THE HAWK
[Canada 1976, regia di George McCowan]
Il giovane Mike, sangue per metà nativo americano, riscopre le sue radici affiancando il nonno in una lunga lotta contro una strega, nemica di vecchia data. Nonostante una messa in scena piuttosto povera e frammentaria e i dialoghi insoddisfacenti, questo film racchiude in sé elementi di grande fascinazione, dall’inquietante maschera della strega alla scena del ponte pericolante funestato dal vento, dalla lotta con l’orso al rituale con i serpenti.
Infine tre titoli fortemente sconsigliati, che rappresentano alla perfezione tutto ciò che un film horror sui nativi americani non dovrebbe essere: La maledizione del cannibale (1985, regia di Phil Smooth), un film talmente brutto da non riuscire a fare il giro per diventare bello ma che rimane fermo dov’è, con degli incommentabili fantocci di spiriti toltechi e uno sceriffo-esorcista che li scaccia con una frusta; Wendigo (2001, regia di Larry Fessenden), che in barba al titolo non parla davvero del wendigo; The Darkness (2016, regia di Greg McLean), che fa parecchia confusione tra Anasazi, Navajo e popolazioni ispaniche.
Zigano stammi lontano
Hanno tanti nomi, tutti in qualche modo scorretti: zingari, rom, sinti, zigani, nomadi. Hanno una storia affascinante, a molti sconosciuta e sono tra i popoli più discriminati al mondo; soprattutto hanno un bagaglio folclorico di tutto rispetto, con all’attivo un interessante coacervo di credenze legate a magia e stregoneria (se ne parla qui, a partire da pagina 46). Eppure gli horror con protagonisti i popoli romanì, con le loro tante superstizioni, si contano sulla punta delle dita, limitandosi alla solita macchietta dello zingaro cattivo, male in arnese e “vendicativo”:
THINNER (L’OCCHIO DEL MALE)
[USA 1996, regia di Tom Holland]
Il messaggio di fondo degli horror sulle maledizioni gitane è chiaro: non fare mai un torto a uno zingaro. Perché altrimenti potrebbe succedere, come in questa trascurabile pellicola tratta da un altrettanto trascurabile romanzo di Stephen King, di essere colpiti da un anatema che condurrà un avvocato obeso a diventare ogni giorno più magro, fino a consumarsi. Sembra quasi una pena comminata attraverso la legge del contrappasso, questa maledizione che colpisce uomini di potere e corrotti: ma è il disperato tentativo di farsi giustizia di un gruppo di persone ai margini, costrette a difendersi da sole perché mal viste da tutti – persino dagli spettatori, che empatizzeranno più con l’uomo bianco alle prese col malocchio.
DRAG ME TO HELL
[USA 2009, regia di Sam Raimi]
Fare carriera a volte è come a vendere l’anima al diavolo, soprattutto se per un aumento si è disposti a tutto – persino a sfrattare di casa un’anziana donna in ristrettezze economiche. E quindi perché stupirsi se poi si viene trascinati letteralmente all’inferno? Questo piccolo capolavoro del grottesco si lascia perdonare tutte le imprecisioni e le mescolanze, che porteranno una medium ispanica a combattere contro una Lamia, demone di origine greco-turca, evocata da una romanì ungherese negli Stati Uniti. Perché pastiche geografico a parte, Drag me to hell è un eccellente horror che dosa con maestria risate e spaventi, barocchismi estetici e ritmi d’azione serratissimi.
ROADKILL
[USA 2011, regia di Johannes Roberts]
La vendetta gypsy questa volta assume la forma di un enorme volatile dalle fattezze mostruose, che farà fuori uno per uno i giovani di un’allegra comitiva in viaggio, colpevoli di aver investito e lasciato morire in strada una zingara. La sua maledizione scagliata in punto di morte sarà con molte probabilità più efficiente del sistema giudiziario. Si tratta di un film per la televisione, artisticamente irrilevante eppure significativa ed ennesima dimostrazione di come venga percepita (e comunicata) la figura del romanì nell’immaginario comune.
L’Italia e il folklore dimenticato
Il resto del mondo vede spesso nell’Italia un luogo magico e mistico, ancora legato a inquietanti tradizioni, siano esse riferite all’universo cattolico che qui più che in ogni altro stato affonda le sue cupe radici, oppure alla sterminata mescolanza di antiche culture che da tutto il Mediterraneo e dall’Oriente si sono da sempre affacciate sul Bel Paese. Nonostante ciò e nonostante un apparato di tradizioni folcloriche parecchio variegate, i film horror italiani sulla magia nera si concentrano per la maggior parte sulla stregoneria, con pochissime ma interessanti eccezioni:
IL DEMONIO
[Italia 1963, regia di Brunello Rondi]
La pellicola è girata e ambientata a Matera, in un paesino popolato da contadini superstiziosi e ipocriti. Lì è tutto un pregare, scongiurare, chiacchierare. E poi c’è lei, la bellissima dal nome bruttissimo: Purificata. Che è malvista da tutti i suoi compaesani perché ritenuta una strega. Nel tentativo di ottenere l’amore di un uomo che la possiede segretamente la notte ma che poi preferisce sposare una pudica vergine, Purificata gli fa una fattura e prova a sabotarne le nozze, mostrando chiari segni di squilibrio mentale. Il malcontento in paese aumenta sempre più e la giovane “strega” diventa il capro espiatorio di qualsiasi disgrazia – sia essa la morte per malattia di un bambino o l’arrivo di minacciosi nuvoloni carichi di pioggia – e ne passa di tutti i colori: dallo stupro al linciaggio, dal rituale d’esorcismo all’esilio, dalla pubblica gogna alla lapidazione. Il Demonio mette in scena con spirito quasi documentaristico alcuni autentici rituali del folklore lucano – basandosi sugli studi antropologici di Ernesto De Martino – realizzando un horror atipico e avveniristico, un unicum nella produzione cinematografica italiana.
ANGELI BIANCHI… ANGELI NERI
[Italia 1970, regia di Luigi Scattini]
Viene considerato un mondo movie e in effetti ne condivide lo stile sensazionalistico e pasticciato, che mette nello stesso calderone realtà parecchio diverse eradicate dal loro contesto, ma Angeli bianchi… Angeli Neri è anche un allucinato documentario che testimonia eventi reali in giro per il mondo: dalle messe nere ai rituali erotico-satanici con tanto di cameo del fondatore della Chiesa di Satana Anton LaVey, alle cerimonie wicca di Alex e Maxine Sanders, fondatori del culto alessandriano; da un coinvolgente rito di candomblè brasiliano, la cerimonia d’iniziazione chiamata “Feitura de santo“, a una vivace rappresentazione della Jurema; passando anche dall’Italia del sud, attraverso la delirante vicenda del Culto del Glorioso Alberto.
ARCANA
[Italia 1972, regia di Giulio Questi]
Cos’hanno in comune la Milano degli anni Settanta, con la sua inarrestabile corsa verso il progresso, coi suoi quartieri ossimorici che alternano zone di estremo benessere ad altre di ghettizzazione proleteria e certi rituali di magia nera praticati da una donna meridionale? Apparentemente nulla: eppure la magia di Arcana, pellicola oscura, geniale e sfortunata, sta proprio in un connubio di mescolanze inspiegabili, che vedono la città meneghina come teatro degli eventi narrati. Al centro della vicenda c’è l’ambiguo rapporto tra una donna che pratica fatture e incantesimi farlocchi e il figlio mentalmente disturbato, che i poteri sovrannaturali li ha davvero. Proprio come in una seduta divinatoria degli arcani, le scene si alternano rivelando una realtà squallida e onirica in parti eguali, ipnotizzando protagonisti e spettatori e portandoli in una dimensione in cui i ricordi di antichi rituali agresti squarciano la percezione della vita in città e l’angoscia di un viaggio in metropolitana diventa una metafora iperrealista di inquietudini suburbane, di rancori proletari, di sussulti postmoderni.
L’ARCANO INCANTATORE
[Italia 1996, regia di Pupi Avati]
Gli horror di Avati, segnanti e significativi al punto tale da aver dato i natali al filone del cosiddetto “gotico padano“, si caratterizzano per un elemento narrativo ricorrente: l’indagine condotta dal protagonista, spesso sprovveduto, su faccende oscure al di là della sua portata e della sua comprensione e l’amaro, inevitabile raggiro finale di cui si scopre vittima inerme e predestinata. Succede nel suo ultimo film, Il Signor Diavolo, nel suo film capolavoro, La casa dalle finestre che ridono e succede anche ne L’Arcano Incantatore, un film che va alla ricerca disperata dell’atmosfera – a volte senza riuscirci – e che si concentra su certe fascinazioni orrorifiche da romanzo dell’Ottocento, raccontando una vicenda di preti spretati e ossessionati dal segreto della vita dopo la morte e dei rituali necessari a raggiungere la conoscenza.
SURBILES
[Italia 2017, regia di Giovanni Columbu]
Nel folklore sardo, le surbiles sono un ibrido tra donna, strega e vampiro, creature in grado di trasformarsi in mosca o in fumo e di entrare nelle case in cerca di sangue di bambini non ancora battezzati. Si tratta di un quasi-documentario, perché ai racconti reali delle donne più anziane, che restituiscono alla telecamera – probabilmente per l’ultima volta – la testimonianza di tradizioni ataviche, si alternano racconti episodici nei quali viene messa in scena un’ipotetica ricostruzione di quanto verosimilmente accadeva tra le stradine silenziose dei paesini sardi. L’inquietudine insita nell’atmosfera, negli effetti sonori e nella fissità di alcune scene fa di Surbiles un film con scintillanti venature horror.
Altri rituali (più o meno assurdi, più o meno veri) in giro per il mondo
Trilogia de Terror
[Brasile 1968, registi vari]
Peculiare antologia horror brasiliana suddivisa in tre fragmenti, il primo dei quali (L’ Accordo) racconta in maniera stilizzata, a metà strada tra film muto e pellicola di exploitation, l’affannosa ricerca di una vergine del posto da sacrificare per un rituale di magia nera. Molto godibile anche l’ultimo episodio, vergato da José Mojica Marins in arte Coffin Joe, incentrato sull’incubo della sepoltura da vivi.

Them that follow (La prova del serpente)
[USA 2019, regia di Britt Poulton e Dan Madison Savage]
Non è un horror, ma parla di uno dei culti più strani praticati negli Stati Uniti, patria della libertà e della stranezza: le cosiddette chiese dei serpenti, una curiosa branca di pentecostali che predicano maneggiando dei serpenti a sonagli vivi durante la messa e che credono i più degni, se morsi, non possano morire. La pellicola, un drammatico triangolo amoroso, è ambientata in una zona remota dei monti Appalachi, tra fanatismi comunitari e moti di ribellione, in una dolorosa lotta tra amore e dovere, tra fede e ragione, tra bene e male.
Rigor Mortis (Il cacciatore di vampiri)
[Hong Kong 2013, regia di Juno Mak)
C’è un grande condominio in cui sembra accadere di tutto: un uomo torna in vita subito dopo essersi impiccato, una donna vede due spiriti in giro per i corridoi, un’anziana signora pratica un pericoloso rituale di magia nera per riportare in vita l’adorato marito appena defunto, un cacciatore di vampiri aspetta il momento giusto per entrare in azione. Le cose si complicano parecchio nel momento in cui i destini di questi e altri personaggi si ingarbuglieranno gli uni con gli altri, dando vita a un glorioso pastiche di scene dal forte impatto visivo, momenti tragicomici, effetti speciali buzzurri e combattimenti di arti marziali che omaggiano – pur distaccandosene – la grande tradizione cinematografica di Hong Kong.
Les Demoniaques (L’isola delle demoniache)
[Francia 1974, regia di Jean Rollin]
Jean Rollin ha diretto una quantità notevole di film, molti di genere erotico, con bellissime donne vampiro e colori sgargianti come marchio di fabbrica. In questa pellicola rape & revenge dal respiro surrealista troviamo due giovani donzelle le quali, seviziate e uccise da un gruppetto di pirati, trovano vendetta grazie all’aiuto di un clown, degli abitanti di un’isoletta e di un messo del Demonio, che conferirà loro poteri straordinari per affrontare i carnefici. Il pregio e al contempo il limite di questo prodotto sta nella sua struttura narrativa sincopata, che rende la vicenda a tratti incomprensibile da uno stacco all’altro, più simile a un fumetto fatto di vignette ed esclamazioni che a un film girato attraverso un susseguirsi logico di scene.
Siccîn
[Turchia 2014, regia di Alper Mestçi]
Quello di Siccin è un fortunatissimo franchise che ha riscosso grande successo in Turchia, giungendo al sesto capitolo. Nel primo film vengono mostrate alcune pratiche di magia nera islamica parecchio inquietanti e – per il pubblico occidentale – diverse dal solito. La trama si basa sull’effetto sorpresa, quindi meglio non svelare troppo: basterà sapere che a ogni maledizione ne corrisponde una ancora più terribile, diretta a chi l’ha scagliata per primo. Siccin è un susseguirsi di jumpscare e scene ripugnanti, il ritmo narrativo serrato e la violenza visiva delle tante trovate spaventose non lasciano un attimo di respiro allo spettatore, ma il confine tra pauroso e ridicolo è davvero sottile.
Art of the devil 2
[Thailandia 2006]
La prima curiosità da sapere è che questo film è stato girato da ben sette registi. La seconda è che fa parte di un franchise di tre film che però non hanno in comune alcun collegamento di trama o personaggi, ma solo il tema della vendetta attraverso la magia nera. In questo film infatti un gruppo di amici, in vacanza nell’imprescindibile casetta isolata chissà dove, viene tormentato prima da terrificanti apparizioni, poi da vere e proprie torture fisiche. Come succeda e perché, lo si scoprirà nei dettagli solo alla fine del film: ovviamente nulla è quel che sembra. E se da un canto la messa in scena è spesso grezza e raffazzonata, con stacchi netti nella narrazione e con interpretazioni dilettantistiche, il film non lesina sul gore, alla ricerca dello shock visivo, mettendo bene in mostra le pratiche di magia nera e lo strazio dei corpi in scene di estrema crudezza visiva.
LITAN
[Francia 1982, regia di Jean-Pierre Mocky]
Nel brumoso paesino europeo di Litan – che nella realtà non esiste – succedono strani avvenimenti in concomitanza della Festa dei Morti – che nella realtà esiste, certo non nell’inesistente Litan ma altrove (ad esempio in Messico) e che non ha nulla a che vedere col bizzarro modo in cui viene rappresentata qui – e così accade che ai chiassosi dispetti, alle inarrestabili corse tra i vicoli e ad altre amene attività di giovani e bambini goffamente mascherati, si alterni la totale immobilità fissa di alcuni compaesani, ridotti in stato catatonico per chissà quale ragione; e che una coppia di coniugi si aggiri alla ricerca disperata del proprio figlio, disperso chissà dove; e che chiunque cada in acqua si dissolva nel nulla e che la polizia non riesca a cavare un ragno dal buco dalle indagini e dagli inseguimenti. Tanti misteri, forse troppi, per questo paesino immaginario, ma anche per l’ignaro spettatore. Litan, ancor prima di essere un film, è una delirante esperienza visiva, un incomprensibile susseguirsi di scene che difficilmente condurranno alla ricostruzione logica di avvenimenti sequenziali: ma il passo dal surrealismo allo stato puro ai buchi di sceneggiatura è molto breve.
SZAMANKA (LA SCIAMANA)
[Polonia 1996, regia di Andrej Zulawski]
Un antropologo, alle prese con le indagini sul corpo mummificato di uno sciamano rinvenuto in degli scavi, intraprende una relazione con una giovane donna dagli atteggiamenti ferini e dalla sessualità vorace. In un’escalation di rapporti sessuali sempre più estremi e violenti, i due sembrano cadere in una spirale (auto)distruttiva di codipendenza: lui sempre più alla mercé di passioni e ossessioni, lei sempre meno in controllo delle proprie azioni. Ribattezzato “Ultimo tango a Varsavia” dal versante più bacchettone della critica per le numerose scene esplicite di natura sessuale, La Sciamana è ammantato da un’aura di assurdità, mistero e sincopata inquietudine che avvicina con agghiacciante naturalezza il piano della realtà a quello delle pulsioni sotterranee, della dannazione personale e collettiva, dell’operato diabolico che rende gli uomini simili a marionette.
Gran articolo, bella sequenza di film, ho gradito molto la presentazione. Grazie
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Grazie a te per la lettura!
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Se me lo consenti ribloggo, tra un po’
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Certamente, ti ringrazio!
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🙂
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Comunque non subito, ho appena aggiunto troppi articoli per la mia media (scarsa) di news… non vorrei abituare troppo bene chi mi segue 😀
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Tranquillo, figurati! Quando e se ti va. Grazie ancora!
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fatto 🙂
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Ho visto la richiesta di accesso, dovresti poter accedere, spero … 😀
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Mumble… non vedo i miei commenti, forse sono finito in spam?
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Ciao, non credo, io li vedo tra i commenti approvati e pubblicati! 🙂
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Meglio 🙂 🙂
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Deve essere (di sicuro) un problema mio, non so se ti è giunto l’ultimo commento… comunque: ora dovresti potere accedere al blog
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Sì, lo vedo! è tutto okay, semplicemente con la moderazione dei commenti, non li vedi subito dopo averli scritti. 🙂
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😉
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Ho intanto visto “Art of the devil 2”, ero curioso…e, ok, è davvero molto episodico … nella recitazione e nei dialoghi ci sono molte differenze con lo stile occidentale. Nel complesso … boh.
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