Si è appena conclusa una nuova, atipica e diversa edizione del Trieste Science + Fiction Festival, funestata dalla chiusura imposta dei cinema ma salvatasi grazie alla programmazione online, che ha consentito la proiezione di film, cortometraggi e incontri nelle sale virtuali di MyMovies. Tra i tanti titoli presentati, otto titoli horror, qui recensiti in ordine di gradimento:
RELIC
[Australia 2020, regia di Natalie Erika James]
I comportamenti sempre più eccentrici ed erratici di un’anziana donna preoccupano la figlia e la nipote, che provano a prendersene cura in una grande casa i cui sinistri scricchiolii e l’aria decadente non sembrano semplici conseguenze dell’incuria domestica, ma inquietanti echi di orribili avvenimenti passati, presenti e futuri.
Viene quasi spontaneo paragonare a Babadook dell’australiana Jennifer Kent questa elegante e ben riuscita opera prima di una regista -anch’essa australiana – alle prese con l’horror autoriale, con l’ambiguità di un finale aperto e con il mostruoso a simboleggiare un terrore emotivo legato alla dimensione materna e femminile.
In Relic entrano però in scena la paura dell’invecchiamento, le idiosincrasie e le tare ereditarie tramandate di generazione in generazione e raccontate attraverso la metafora della casa-corpo, in continuo deteriorarsi proprio come il tessuto epiteliale, le ossa, gli organi della matriarca, colta nell’inesorabile transizione in uno stadio dell’esistenza che è un misto di regressione all’infanzia e viaggio verso l’ignoto.
E di horror geriatrici in linea con Relic ce ne sono alcuni, recenti e piuttosto notevoli: i misconosciuti The last will and testament of Rosalind Leigh di Rodrigo Gudiño, The Sideways Light di Jennifer Harlow, il pasticciato The taking of Deborah Logan di Adam Robitel e l’incompreso The Visit di M. Night Shyamalan.
BENNY LOVES YOU
[Regno Unito 2020, regia di Karl Holt]
Diventare “adulti” (qualsiasi cosa significhi) e rinunciare ai giochi e alle piccole abitudini dell’infanzia è molto difficile, a maggior ragione se uno dei giochi da buttare via prende improvvisamente vita, uccidendo chiunque provi a separarlo dal suo amico umano, al quale vuole evidentemente molto bene.
Non si prende sul serio, Benny Loves you, ed è per questo credibile nella sua messinscena quasi demenziale, che non scivola mai nella comicità stantia ma che non ha nemmeno la pretesa di impartire lezioni o insegnamenti: un pupazzetto ha preso vita e compie efferati omicidi, provandoci gusto e trovando in qualche modo la complicità del suo amato – e mai davvero cresciuto – compagno di giochi.
Brillante commedia horror che richiama la gloriosa tradizione dei pupazzi assassini, dal franchise di Puppet Master a Dolls di Stuart Gordon, da Demonic Toys di Peter Manoogian alla saga di Chucky, dando un apporto nuovo, originale e divertentissimo al genere.
PENINSULA
[Corea del Sud 2020, regia di Sang-ho Yeon]
Se ne parlava già dallo scorso anno ed è stato inserito a sorpresa nella programmazione del Trieste Science+Fiction Festival: Peninsula del coreano Sang-ho Yeon è il sequel di Train to Busan, uscito nel 2016 e divenuto oramai famosissimo. L’epidemia che quattro anni prima aveva colto di sorpresa e cambiato per sempre la vita degli abitanti di Seul – e degli ignari passeggeri di un treno, destinati a inventarsi picareschi rimedi anti-zombi – è dilagata in tutta la Corea, divenuta una nazione fantasma popolata quasi esclusivamente da morti viventi. Un sopravvissuto all’epidemia, rifugiato a Hong Kong, accetta di tornare nella penisola infetta per recuperare un enorme quantità di denaro contante abbandonata in un camion. A rendergli difficile il recupero non sarà tanto la compagine di zombi (qui caratterizzati da eccezionali capacità motorie, con pittoreschi accenni di contorsionismo e ballo sincronizzato) tutto sommato raggirabile, ma la nuova umanità post-apocalittica nata dalla scomparsa della civiltà e formata da individui violenti, abbrutiti, privi di qualsiasi morale. Una trama non originalissima quindi quella di Peninsula, accompagnata da richiami all’universo di Mad Max e smargiassate da action movie che lasciano un’amara sensazione di già visto e che penalizzano un film ben fatto, dalla narrazione curata, entrando a far parte dell’enorme quantità di pellicole colpite dalla cosiddetta “maledizione del secondo film”: non è male, ma il primo era meglio.
Il treno per Busan, insomma, passa una volta sola.
BOYS FROM COUNTY HELL
[Irlanda 2020, regia di Chris Baugh]
Che l’Irlanda sia un luogo mistico, ricco di folklore, tradizioni e leggende, lo sanno tutti. In pochi invece sanno che in Irlanda esiste (davvero, nei pressi di Garvagh) un piccolo villaggio all’interno del quale sorge (davvero) un dolmen a ricordare il luogo di sepoltura di tale Abhartach, un antenato del vampiro ottocentesco, anzi un suo diretto concorrente secondo alcuni abitanti del luogo, che sottolineano come la leggenda del vampiro, da quelle parti, circolasse già da prima, tanto da aver potuto ispirare Bram Stoker per la stesura di “Dracula”. O almeno, queste sono tutte le balle che raccontano ai turisti gli abitanti di Six Mile Hill, nome fittizio di un paesino rurale la cui unica attrattiva per gli abitanti del posto è il pub locale. Le cose prenderanno una strana piega per alcuni giovani abitanti del posto quando, per una curiosa serie di coincidenze, del sangue viene versato proprio su quel cumulo di pietre che terrebbe a bada il mai spirato Abhartach, risvegliando la sua irrefrenabile voglia di emoglobina. Boys from county Hell è una commedia horror dai toni pacati e una gradevole rivisitazione alternativa del mito di Dracula, che ne cambia l’origine, l’aspetto, le modalità di attacco e contrattacco, modificando le regole del gioco e sfuggendo alla banalità del prevedibile. Tra gli omaggi più o meno espliciti alle pellicole di culto, non a caso figurano il Nosferatu di Murnau e Un lupo mannaro americano a Londra. C’è qualche accenno di critica sociale, per dare voce a un proletariato rurale che spesso non trova molto spazio nelle idilliche rappresentazioni del paese dei folletti, con l’evidente analogia tra il vampiro che dissangua gli abitanti del borgo e l’esproprio delle case di alcuni cittadini di Six Mile Hill per consentire la costruzione di un’autostrada.
Poi è tutto un susseguirsi di gag che giocano bonariamente sui più famosi stereotipi legati al tipico stile di vita irlandese, offrendo però più sorrisi a denti stretti che risate a pancia piena (e va benissimo così).
ALONE
[USA 2020, regia di Johnny Martin]
Se qualcuno dovesse provare una sensazione di déjà-vu guardando questa pellicola sulle peripezie di due sopravvissuti che in piena apocalisse zombie provano a comunicare e a incontrarsi, è perché probabilmente ha già visto #Alive, gemello eterozigote nato dalla stessa identica sceneggiatura: esistono insomma due versioni dello stesso film, simili ma per nulla identiche. Il coreano #Alive, distribuito su Netflix, propone meccanismi narrativi più avvincenti che abbracciano armoniosamente il film dall’inizio alla fine, con le scene conclusive che si ricollegano a quanto raccontato nell’incipit; lo statunitense Alone punta invece più sull’alternarsi di dialoghi e azioni serrate, con un finale aperto ma fin troppo vago che non porta a termine nulla di quanto iniziato. In entrambi i casi, il cuore della vicenda gira intorno ai disperati tentativi di (ri)congiungimento tra un ragazzo e una ragazza, sopravvissuti più o meno dignitosamente a un’epidemia virale che trasforma gli infetti in zombi dalle limitate capacità cognitive, quindi in grado di elaborare pensieri semplici e orientarsi nello spazio. Nella versione asiatica entrambi i personaggi vengono ben caratterizzati e relazionati armoniosamente, le loro azioni risultano sensate e verosimili alla luce del loro background; in Alive, è il protagonista maschile a ricevere quasi totalmente le attenzioni della macchina da presa, impegnato in goffi tentativi di sedurre l’unica ragazza rimasta viva della porta accanto della quale sappiamo poco o nulla. Magra consolazione, una breve parte del compianto Donald Sutherland.
POST MORTEM
[Ungheria 2020, regia di Peter Bergendy)
Si parla spesso della fotografia post mortem in epoca vittoriana, ma non si accenna quasi mai al fatto che la tradizione delle fotografie in posa di cadaveri rappresentati come persone in vita abbia proseguito anche più in là nel tempo, fino agli anni Trenta dello scorso secolo. Post mortem dell’ungherese Peter Bergendy è ambientato proprio in quel periodo estremamente cupo tra la prima e la seconda guerra mondiale, quando l’umanità si scopriva capace di orrori inimmaginabili e mai vissuti prima: in un villaggio rurale, sconvolto dal dilagare dell’epidemia di influenza spagnola e flagellato dai tanti morti di guerra, un gran numero di cadaveri che non vengono sepolti viene immortalato da un fotografo specializzato nella realizzazione di ritratti post mortem. Ma le anime inquiete dei corpi sparsi ovunque nel villaggio si manifestano in maniera via via sempre più insistente, macabra e violenta. Si tratta di una ghost story di maniera, che non lesina jumpscare e momenti di profonda inquietudine e che propone interessanti soluzioni visive votate al surrealismo, ma che indugia troppo a lungo, e in maniera esasperata, nella parte finale del film, dedicata a parossistici poltergeist collettivi con tanto di urla isteriche e levitazioni casuali.
YUMMY
[Belgio 2019, regia di Lars Damoiseaux]
Donne e uomini da tutto il mondo si avvalgono di miracolosi quanto economici e dozzinali interventi di chirurgia estetica offerti da un’ambigua clinica dell’Est Europa in cui, tra discutibili standard igienico-sanitari e protocolli di sicurezza inesistenti, esplode un’epidemia zombi di origine sconosciuta. Se bella vuoi apparire, un po’ devi morire?
Tra lifting, liposuzioni, ingrandimenti del pene, sbiancamenti anali, filler e botox di ogni tipo, nella clinica si respira un’aria di vaga illegalità della quale sembrano accorgersi solo i due protagonisti, un ex studente di medicina emofobico e la sua fidanzata maggiorata giunta lì, in netta controtendenza, per ridurre il suo enorme seno naturale. Primo film zombi prodotto e girato in Belgio, Yummy rappresenta una variante del tema contagio all’insegna del grottesco e dello splatter “chirurgico”. I meccanismi narrativi sono i soliti previsti dalle pellicole del genere, con la creazione accidentale di un virus a scopi illeciti e il conseguente dilagare incontrollabile dell’infezione a suon di morsi: la fantasia sta nella creazione di gag su misura, che rispecchiano la supposta vacuità che aleggia in una clinica estetica. Farraginosa invece, per non dire fuori luogo, la satira di un mondo – quello dei ritocchini e delle tette rifatte – che ancora una volta insiste prevalentemente sul corpo femminile, oggetto di attenzioni, osservazioni, giudizi e critiche (il corpo è mio e me lo rifaccio come voglio io, dovrebbe essere lo slogan). Così come sfugge il senso della satira rivolta ai paesi dell’Est, con tanto di sfottò linguistico e accenti scimmiottati.
Blog geniale, questo. Sì.
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Ma grazie!
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