“E il verbo si fece carne, e nella carne venne inserito un impianto, ma qualcosa andò storto, e carne e impianto si fusero dando vita ad un’aberrazione fatta di tessuto cicatriziale e parti meccaniche, costretti a vagare all’interno di un piano della realtà soggetto a mutazioni di origine virale“.
Se la filmografia di David Cronenberg fosse un credo e avesse le sue scritture, un passo reciterebbe probabilmente così. Deliri mistici a parte, la filmografia di Cronenberg è davvero un punto di riferimento sacro per il cinema, anche per lo stesso figlio del cineasta canadese, Brandon Cronenberg (già autore del validissimo Antiviral), che ha deciso di ripercorrere le orme paterne divenendo a sua volta regista e dedicandosi ai medesimi temi già affrontati dal padre: il progresso come inganno, lo scompattamento dell’io, il body horror in tutte le sue declinazioni, l’imprevedibilità irrazionale degli eventi, l’ambiguità di fondo tra reale e immaginario, tra vissuto e virtualità, tra l’azione concreta e il piano del desiderio, l’affinità tra sessualità, malattia e morte, il gusto del deforme, l’asettica osservazione dell’anomalia biologica, l’epidermide come punto di accesso e mezzo di espressione del male, dell’orrore e del disgusto, eccetera.
Possessor, presentato al Sundance Film Festival a inizio 2020 ma non ancora distribuito in Italia, è il secondo lungometraggio di Cronenberg jr, e sarebbe impossibile parlarne senza prima parlare delle tante opere che lo hanno preceduto cronologicamente e ideologicamente, considerata la forte impronta derivativa di questa conturbante pellicola tech-noir.
Un salto indietro nel tempo per parlare del futuro.
Nel 1955, lo scrittore statunitense Frederik Pohl pubblicò un racconto intitolato “Il tunnel sotto il mondo” (qui un interessante approfondimento sul racconto e sull’influenza che ha avuto su cinema e letteratura). Era ambientato in una cittadina in cui gli abitanti, inconsapevolmente soggiogati da un occulto think thank di pubblicitari intenti a sottoporli a continui slogan e input consumistici, vivevano ogni giorno la stessa medesima giornata, salvo poi dimenticare tutto nel corso della notte e fungere da sempiterna banca dati da analizzare e spremere all’infinito. Il protagonista del racconto, per qualche anomalia divenuto consapevole della propria condizione, nel tentativo d’interrompere l’eterno ritorno dell’uguale, avrebbe realizzato con sempre maggior sgomento che i suoi concittadini erano robot e che la sua città era stata distrutta da un’esplosione e poi ricostruita al pari di un set televisivo o di un plastico. Da questo racconto, e dai temi snocciolati, derivano un gran numero di film distopici, di fantascienza e di fanta-horror, incentrati su alcuni temi portanti come il loop esistenziale e temporale, che porta il protagonista a rivivere lo stesso momento in continuazione – come nella versione più oscura del cosiddetto “giorno della marmotta”, e a sospettare prima della natura fittizia della realtà che lo circonda, poi di un inganno più interno e profondo, sottocutaneo o molecolare, ovvero di non essere più in possesso del proprio corpo, della propria memoria, della propria coscienza ma in balìa di un’entità altra, ostile. Un’idea antica, riconducibile a quella della possessione, ma adattata e declinata in senso moderno.
Terrore dallo spazio profondo, dal cielo, dalla Terra, da dentro, da tutto intorno a noi.
Può accadere che a svuotare l’uomo dei suoi ricordi e della sua volontà siano gli alieni, come accade per esempio in Dark City – oscuro, misconosciuto e non troppo riuscito film di Alex Proyas in cui il protagonista scopre che l’umanità è succube di una specie aliena che ogni notte ne azzera i ricordi e ne cambia le personalità e le vite – o come nel famosissimo “Invasione degli ultracorpi” di Don Sieger (1956), pilastro fondante del fanta-horror con ben tre remake/reboot all’attivo, o ancora, sebbene con portata decisamente più metaforica, come in Essi Vivono di John Carpenter (1988).
Può accadere invece che i ricordi e la volontà dell’uomo siano fittizi, installati a mo’ di sistema operativo, perché parte di un’intelligenza artificiale creata sì, dagli uomini, ma sfuggita al loro controllo, come accade in Westworld di Michael Crichton (1973) e ovviamente in Blade Runner di Ridley Scott (1982).
Ma il passo successivo, quello che introduce l’elemento informatico, meccanico e videoludico all’interno di un’opprimente spirale di futuribilità inevitabilmente distopica fatta di cambiamenti e perdite identitarie, lo compiono alcune pellicole incentrate sulla realtà virtuale immersiva: in Total Recall di Paul Verhoeven (1990) è una simulazione di vacanza sul pianeta Marte a dare il là all’incubo del protagonista, incapace di scindere, ricordare e distinguere il vissuto dal simulato; in eXistenZ di David Cronenberg (1999) l’invasione parte dal mondo videoludico e assume le fattezze di una console organica che si insinua nel corpo umano, corrompendolo con un virus che annulla la capacità di discernimento del reale dal virtuale; in Polder: Tokyo Heidi di Julian M. Grünthal e Samuel Schwarz (2015), infine, il gioco si trasforma in un interminabile incubo plasmato sulle paure de singolo individuo.
Possessor, sulla scia di questi (e altri) riferimenti cinematografici, compie un piccolo salto evolutivo, ponendo come nemico e possessore dell’uomo non più l’alieno, l’intelligenza artificiale o la realtà virtuale immersiva ma sé stesso, attraverso tecnologie appositamente concepite per danneggiare i propri simili: gli impianti al cervello messi a punto da una società specializzata in omicidi d’alto profilo non hanno altro scopo che quello di consentire ai serial killer addestrati e pagati di compiere la loro missione. La crisi non potrà che essere innescata quindi dall’interno, dall’assassina più brava e gettonata, che nel corso dell’ennesima missione inizia a perdere il controllo di sé stessa e del corpo che vuole controllare, ribaltando inoltre il punto di vista della narrazione dal carnefice alla vittima e viceversa.
La fotografia elegante, calda e intensa curata da Karim Hussein, un’azione talvolta lenta o confusionaria ma sempre ben controllata, la recitazione minimale e calibrata, una sceneggiatura disinvolta e la sapienza registica di Cronenberg jr completano il quadro: Possessor probabilmente non assurgerà a nuovo cult, non farà da spartiacque per il genere e non sarà nemmeno il nuovo Videodrome, ma sarà un film che varrà la pena aver visto per comprendere il cammino che la paura umana ha intrapreso all’alba dei tempi e che tutt’oggi continua a percorrere, attraverso un presente che è già distopia e diretta verso un futuro in cui l’aberrazione non proviene da altri pianeti o da dimensioni parallele, ma dalle proprie tendenze autodistruttive.