[RECENSIONE] HORROR IN THE HIGH DESERT E LE TRE REGOLE DEL FOUND FOOTAGE

[Attenzione: sono presenti spoiler]

Prima regola del found footage: non si parla (più) del found footage. Perché se questa tecnica ha favorito il proliferare di un sottogenere dell’horror, tanto squattrinato quanto vituperato per aver dato vita a una progenie di film di scarsissima qualità – in barba all’implicito accordo di onorare il compromesso tra povertà di budget e abbondanza di trovate interessanti – che continua a essere riproposto nel 2021, non si può che prenderne atto e accoglierlo con un misto di rassegnazione e consapevolezza, senza troppe chiacchiere, oppure ignorarlo e passare oltre, senza troppe polemiche.


Seconda regola del found footage: segui le orme dei tuoi predecessori, e andrà tutto bene. Quando la tecnica e il contenuto finiscono per influenzarsi a vicenda, utilizzare schemi, percorsi e formule già collaudati non potrà che contribuire alla buona riuscita del film. E in effetti, questa produzione statunitense diretta da Dutch Marich non si discosta dal cammino percorso negli ultimi trent’anni da tante altre pellicole di quella stessa tipologia. Strutturato come un mockumentary, “Horror in the high desert” propone la ricostruzione fittizia e basata su fatti NON realmente accaduti, attraverso interviste a personaggi creati ad hoc e a brevi filmati ritrovati e cuciti tra le scene per creare un patchwork narrativo dinamico, riguardanti la scomparsa di Gary Hinge, esperto escursionista appassionato di viaggi in solitaria negli ostili e sconfinati territori del Nevada, tra zone desertiche, fitte boscaglie, inquietudine statunitense nascosta in mezzo a cimeli minerari e vecchie ferrovie dai trascorsi dolorosi.  Alla sparizione improvvisa del giovane seguono –  come da copione – ricerche, indagini, inquietanti ritrovamenti e una progressiva serie di rivelazioni sullo sfortunato scomparso, che nessuno sembra conoscere davvero. E nella cui vita parallela da blogger di successo si nasconde, forse, la risposta all’enigma sul suo mancato ritorno da una strana escursione in una zona sconosciuta. Horror in the high desert ricorda in maniera quasi imbarazzante Lake Mungo, ottimo mockumentary found footage australiano del 2008, col quale condivide una sostanziale affinità nella presentazione in absentia del protagonista, mostrato solo all’interno di vecchi filmati precedenti la sua scomparsa, e la graduale scoperta di piccoli e grandi retroscena utili a ricostruire gli avvenimenti che hanno portato il giovane Hinge a sparire nel nulla.  Ai minuti conclusivi del film è attribuita l’ingombrante responsabilità di tirare le somme di un racconto di buona fattura in cui non accade praticamente nulla attraverso il ribaltone di un finale sconvolgente: tuttavia la magia spaventosa di Lake Mungo, che proponeva davvero una trovata conclusiva geniale e agghiacciante, rimane un unicum destinato a non graziare questo suo emulo. Così, il climax generato dalla tensione accumulata nel corso di ben due ore, si accascia improvvisamente su sé stesso, ripiegando su un finale smorto e lasciato a gambe all’aria, con la precisa intenzione di rimandare a un sequel, attualmente in postproduzione e atteso per il 2022. Il che conduce immediatamente alla terza regola del found footage: less is more, e una serie di film a basso costo di buona esecuzione e di scarsa innovazione, destinata magari a diventare un franchise di successo, ne è la prova.

Spoiler (con morale e considerazioni sul mostro di turno): Nel corso di una delle sue avventurose esplorazioni, Hinger racconta ai suoi follower attraverso un video di aver sentito un peculiare odore di bruciato e ed essersi imbattuto in una casupola di fortuna dalla quale fuoriesce del fumo. E di esser immediatamente andato via, avvertendo qualcosa di profondamente sbagliato e terrificante in quella piccola abitazione abusiva. Apprendiamo così che alcuni seguaci di Hinger, approfittando della sua naturale spontaneità e ritrosia, tendono a bullizzarlo e a manipolarlo, al punto da convincerlo a tornare in quell’esatto punto – la cui ubicazione precisa non viene intenzionalmente rivelata – per filmare e fornire delle prove di quanto riferito. Hinger non farà mai più ritorno a casa. L’ultimo video, mai pubblicato, viene trovato nella sua videocamera, all’interno del suo zaino, ben stretta nella mano recisa dell’esploratore, da alcuni campeggiatori. Le immagini, ovviamente mosse, sgranate e poco comprensibili, mostrano un incontro in notturna con un individuo deforme, che accortosi della presenza del blogger, procederà con un lentissimo e inquietante inseguimento al buio, destinato a culminare in un’aggressione.
Le riprese del found footage terminano così, lasciando intuire l’avvenuta morte del giovane Hinger per mano della creatura deforme. Ma i suoi seguaci, ripetendo uno schema piuttosto usuale nei casi virali di omicidi e sparizioni misteriose vagliati su internet, intraprendono una ricerca a suon di ipotesi e indizi, mettendosi alla ricerca del ragazzo (o di ciò che ne rimane), dei luoghi segreti indicati e del “mostro”. Promettendo di pubblicare i risultati delle ricerche nel 2022.

Questo finale aperto non esclude alcuna possibilità: non solo per generare curiosità e attesa nello spettatore ma soprattutto per una caratteristica molto peculiare riguardante le modalità con le quali è stato realizzato il film, girato in piena pandemia, sfruttando al massimo il potenziale del mockumentary e del found footage per proporre riprese in cui gli attori non fossero mai insieme nello stesso momento senza che ciò sembrasse poco plausibile.
Ciò che invece non è auspicabile, ipotizzando con un piccolo sforzo di immaginazione quale sentiero potrebbe imboccare il sequel, è il ricorso a cliché scontati e scadenti sull’identità del “mostro”. In un momento del film si accenna infatti alla presenza di antiche tracce dei nativi americani lungo i sentieri percorsi da Hinge e sarebbe parecchio deludente se si andasse a parare, come tanti altri film horror hanno già fatto prima, sull’eterno spirito di vendetta delle popolazioni colonizzate e sterminate viste attraverso lo sguardo culturalmente egocentrato dell’americano bianco privilegiato. Così come, date le numerose deformità fisiche dell’aggressore intravisto nei minuti finali del film, potrebbe prospettarsi l’utilizzo di un altro immancabile tropo dell’horror che attribuisce al personaggio dal corpo difforme o al diversamente abile – vuoi a causa di anomalie genetiche, di sindromi o menomazioni, o magari per effetto di incidenti o di sevizie – caratteristiche caratteriali e morali negative, associando la mostruosità fisica alla malvagità.

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