Può l’atmosfera infinitamente cupa e angosciante di un film sopperire alle numerose, paradossali e imperdonabili lacune di una sceneggiatura sforacchiata e fragile? La risposta nella maggior parte dei casi sarebbe un no secco, ma in Caveat, primo lungometraggio dell’irlandese Damian Mc Carthy, le voragini nella scrittura e gli abissi scavati da prospettive diegetiche prive di senso vengono parzialmente riempiti dal continuo risuonare di un’inquietudine quasi atavica legata al buio, al silenzio, all’isolamento, all’inciampo sull’impossibile.
La vicenda narra la terrificante disavventura di Isaac, un uomo privo di memoria ingaggiato da un sedicente amico per un lavoro dai connotati a dir poco sinistri: occuparsi di una giovane orfana affetta da disturbi psichici di grossa entità e rimasta a vivere, in barba a qualsiasi logica, completamente sola nella casa in cui il padre è morto suicida e la madre è scomparsa. L’abitazione, quasi decomposta tra pareti muffite e scalcinate, muri sfondati e stanze immerse nel buio, si trova in un’isoletta sperduta da qualche parte in Irlanda, ma l’esatto nome e ubicazione non vengono resi noti. Isaac, allettato dalla promessa di ben duecento sterline giornaliere, accetta il lavoro e accetta dopo varie esitazioni anche tutte le surreali condizioni che esso comporta, tra cui l’emarginazione in un luogo a lui sconosciuto e l’obbligo di indossare una pettorina assicurata a una catena, piantata nel meandro più oscuro della casa – la cantina, proprio quella in cui avvenne un suicidio e dalla quale non tarderanno a provenire rumori e scricchiolii – trovandosi così incatenato in casa e impossibilitato a uscirne o a raggiungere la stanza della giovane della quale dovrebbe occuparsi. Che casualmente è anche la stanza in cui si trova l’unico telefono della casa, unico collegamento col mondo esterno.
Pur con tutta la buona volontà possibile, facendo appello alla voglia di dar fiducia alla narrazione e dopando all’estremo ogni briciolo di sospensione dell’incredulità rimasto sul pianeta, risulta parecchio difficile lasciarsi andare e considerare plausibili queste premesse per la messa in scena, che indulgono inoltre nella carenza di un background adeguato sui personaggi.
Ed è un vero peccato, perché in maniera semplice ma efficace, tutti i momenti successivi concorrono ad alimentare un meccanismo della paura privo di inceppamenti: tra suoni inquietanti, cadaveri murati, crisi psicotiche ed episodi allucinatori, spicca uno spaventoso pupazzetto “posseduto” con le sembianze di un coniglio, i cui movimenti spontanei identificano la presenza di qualcosa di malvagio e invisibile nelle vicinanze. È quel coniglio ad apparire nei suggestivi poster promozionali del film, è quel coniglio a fornire coi suoi movimenti un nefasto avvertimento – il caveat da cui deriva il titolo – e a regalare numerose scene di grande tensione con la semplicità di un’interpretazione monocorde in cui non fa nulla se non agitare le zampette meccaniche su un tamburino, lo sguardo vitreo da pupazzo fisso nel vuoto, pronto a sovvertire gli stereotipi (proprio come la giovane ragazza, della quale si fa simbolo) sulle creature paurose per antonomasia con la sua presenza muta e irremovibile al cospetto degli spiriti. E che avrebbe dunque meritato un maggiore risalto, anziché sparire nel nulla, ingoiato da una narrazione in fuga da sé stessa.
Allo stesso modo, lo spazio riservato ai morti è piuttosto limitato, il che stona con l’idea di una casa spettrale infestata da fantasmi dei quali viene suggerita sovente la presenza, attraverso un buon gioco di effetti sonori.
Quanto ai personaggi viventi, tra la giovane ragazza straziata dal disagio psichico e Isaac, tormentato da inafferrabili sentori dei suoi trascorsi dimenticati, scatta un rincorrersi e mettersi in trappola a vicenda, con un continuo ribaltarsi dello scenario e dei rapporti di potere tra due personaggi che incarnano entrambi, ma in maniera diversa, l’antipotere per eccellenza: da un canto una mente che ricorda, ma che non comprende, dall’altro una mente in grado di comprendere, ma non di ricordare.
In definitiva, Caveat lascia un po’ tutti a bocca asciutta, con un inseguirsi di idee mordi e fuggi che non hanno mai modo di trasformarsi in sequenze compatte e soddisfacenti, eppure si lascia perdonare, grazie alla cura di sonoro e atmosfere, le troppe ellissi narrative, la lentezza, il minimalismo della messa in scena.
Al netto della stupidità del protagonista direi che é un buon film. Gli inglesi sanno fare horror molto d’atmosfera e con cinquemilalire.
Si hai ragione, deluso ma non troppo
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Sì, concordo. Alla fine è uno dei film del 2021 che salverei nella mia raccolta dei titoli che meritano un’occhiata.
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