OLTRE LO SPECCHIO FILM FESTIVAL 2022: LUZIFER, MOLOCH, HATCHING E ALTRI HORROR PER IL LATO OSCURO DEL CINEMA DI GENERE A MILANO

Oltre lo Specchio, festival cinematografico milanese alla sua quarta edizione, quest’anno ha nuovamente cambiato location e veste, proiettando dal 3 al 9 novembre ben ventotto lungometraggi al Cinema Centrale di Milano e ampliando rispetto allo scorso anno la sua programmazione: oltre all’horror, alla fantascienza e al thriller, anche film drammatici e d’azione tra i film in concorso e fuori concorso.

Ecco di seguito una selezione degli horror proiettati a Oltre lo Specchio 2022 secondo Horror Vacui, in ordine di gradimento:

LUZIFER
(Austria, 2022 – regia di Peter Brunner)

“Dov’è il Diavolo?”. Questa la domanda, quasi un mantra, ripetuta ossessivamente da Maria, una donna dal passato oscuro che vive da anni in un’abitazione di fortuna arroccata tra le Alpi, in compagnia del figlio Johannes – adulto nel corpo ma con le facoltà mentali di un bambino – e di una lunga sfilza di demoni, interiori e non: l’alcolismo, lasciato alle spalle grazie a una conversione al fanatismo religioso; il lutto inconsolabile per la perdita del marito; le fissazioni ritualistiche di purificazione attraverso abluzioni in acqua o pire di fuoco; l’avversione alla tecnologia, nemica distruttrice del bene e della natura; la tendenza ipercontrollante e la costante ricerca del contatto fisico – ai limiti dell’approccio incestuoso – nei confronti del figlio, del tutto innocente e inconsapevole di cosa sia la realtà del mondo esterno, avendolo visto attraverso gli occhi e i racconti deliranti della madre. L’esistenza – pur discutibile ma semplice e pacifica – di Maria e Johannes viene sconvolta dall’irruzione di alcuni droni dal cielo, che arrivano insieme alla proposta, sempre più pressante e minacciosa, di vendere il loro terreno e lasciare la loro casa per consentire la costruzione di una pista da sci. Al rifiuto della donna seguiranno rappresaglie sempre più esplicite e violente, mentre questa tornerà a cadere in una spirale di perdizione: spetterà a Johannes salvarla, assumendo al contempo un ruolo salvifico e uno malefico.

Luzifer è un horror nichilista e d’atmosfera, in cui il non detto prevale sui dialoghi e sull’azione: con fatica si entra nel mondo di una madre sola e disperata, un mondo popolato di traumi, paure e lacerazioni. Con fatica si esce da quella stessa proiezione mentale che sembra influenzare tutto l’ambiente circostante, facendolo sembrare più buio, nebbioso, sporco e corrotto di quanto non lo sia già. Al contempo, la riflessione sulla prepotenza distruttiva dell’uomo nei confronti della natura, fornisce forse la risposta più plausibile e accurata alla domanda “Dov’è il Diavolo?”: è in quei droni che spiano, scandagliano e stalkerano gli abitanti delle valli alpine, è nelle ruspe che spazzano via ettari di bosco, è nella compiacenza di chi vende ciò che non gli appartiene, vendendosi l’anima.

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GOOD MADAM Mlungu Wam
(Sud Africa, 2022 – regia di Jenna Cato Bass)

La signora Mavis ha lavorato tutta la sua vita, e lavora ancora, in una grande villa nella periferia benestante di Cape Town. La proprietaria è Dianne, un’anziana e ricca donna bianca, malata e costretta a letto. Mavis dorme in una stanza spoglia e disadorna, quasi uno sgabuzzino, senza utilizzare alcun oggetto della casa o occuparne alcuno spazio, pulendo ossessivamente i pavimenti, le piastrelle, la biancheria – ha votato la sua esistenza alla pulizia maniacale della casa e all’assistenza alla sua “Madam”, che la chiama suonando un campanello. La figlia di Mavis, Tsidi, costretta a chiederle ospitalità in un momento di bisogno, nota il comportamento erratico, immusonito ed eccessivamente servile della madre, insieme alla presenza di simboli inquietanti sparsi qua e là per la villa, apparizioni misteriose, piccoli tic alienanti e momenti di dissociazione che le fanno odiare – e temere – quella grande casa. Il rapporto tra madre e figlia è sempre più teso e conflittuale, mentre l’anziana Dianne, rinchiusa in una stanza in cui solo Mavis può entrare, continua a suonare il campanello e a far percepire la propria presenza in maniera subdola, apparendo nelle foto, nelle bizzarre scelte d’arredamento, nei discorsi colmi di devozione e gratitudine di Mavis, ma mai di persona. Col passare del tempo, Tsidi capisce che in quella casa sta succedendo qualcosa di strano e molto pericoloso per la sua famiglia.
Good Madam è una metafora per nulla oscura sull’oppressione sistemica di matrice razzista, colonialista e classista, sul trauma post-apartheid e sulla schiavitù, formalmente scomparsa eppure ancora presente nella memoria e nei pattern comportamentali: alla privazione coercitiva della libertà subentra la privazione della volontà attraverso gli strumenti di potere tradizionali (il denaro, la proprietà dei beni) ma anche attraverso il ricorso a certi oscuri rituali. Nonostante lo sguardo (non privo di problematicità intrinseche) della regista tenda a soffermarsi più sull’enfasi della sofferenza degli oppressi che sulla profondità della sua elaborazione, le interpretazioni solide e solenni, un eccezionale lavoro sul sonoro e una tensione costruita in maniera molto lenta ma efficace (tanto da toccare nervi scoperti e condurre a un piccolo abisso di disperazione) confezionano un horror intenso, che mette a disagio e costringe a fare i conti con un passato di apartheid, razzismo e prevaricazione sociale per nulla lontano e non ancora lasciato alle spalle.

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MOLOCH
(Olanda, 2022 – regia di Nico van den Brink)

Betriek è una giovane donna che vive insieme alla figlia e ai suoi genitori in una casa nei pressi di una torbiera, conducendo una vita piuttosto ordinaria, almeno all’apparenza, turbata però da un vecchio trauma infantile – il suicidio inspiegabile e granguignolesco della nonna – e dalla sensazione che qualcosa di brutto stia per accadere. Convinta che sulla sua famiglia gravi una maledizione potentissima e ineluttabile ma non in grado di dare un volto o una spiegazione agli eventi, piccoli e grandi, che iniziano a sconvolgere sempre più la sua vita e quella dei suoi familiari, Betriek scoprirà quasi per caso un legame tra una vecchia leggenda del luogo e certe strane presenze nel bel mezzo della torbiera, complici alcuni corpi lì trovati e dissotterrati da un’equipe di ricercatori.
Moloch, che già dal titolo evoca creature e suggestioni tipiche del folk horror, racconta in maniera canonica, senza sconvolgimenti e senza strafalcioni, una storia popolata da apparizioni, sparizioni, rituali e stigma che in qualche modo simboleggiano l’ereditarietà di un trauma a conduzione familiare. La tavolozza è buia e nebbiosa, proprio come la torbiera in cui si svolgono le vicende, la recitazione è realistica, dimessa ma non banale. Alcune trovate sceniche risollevano il film dalla mancanza di mordente, mentre il finale, pur non dispiacendo affatto, rimane ben ancorato alla comfort zone delle cose già viste (e previste).


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SOMETHING IN THE DIRT
(Stati Uniti, 2022 – regia di Justin Benson e Aaron Moorhead)

Levi si è appena trasferito a Los Angeles, in un appartamento di fortuna spoglio e malandato, all’interno di un condominio semideserto e di una città dal sentore vagamente apocalittico in cui certi eventi eccezionali – come enormi incendi boschivi, aerei in volo a raso tetto e animali selvatici un po’ troppo a loro agio in contesti urbani – sembrano fatti di ordinaria amministrazione. Levi stringe subito amicizia con il suo vicino di casa, John, insieme al quale inizia ad assistere a fenomeni del tutto fuori dall’ordinario – persino rispetto agli standard di Los Angeles: in quell’appartamento semivuoto e scricchiolante, ogni giorno un oggetto inizia a fluttuare in aria, in barba a qualsiasi legge della fisica conosciuta. I due non possono esimersi dall’osservare, e decidere di filmare in maniera amatoriale – con esiti tragicomici – i misteriosi movimenti che col passare del tempo iniziano a interessare sempre più oggetti e parti della casa e man mano le zone circostanti e poi l’intera città. Inevitabile il passo successivo: formulare ipotesi, spiegazioni e ricostruzioni sempre più assurde, complottiste e paranoiche sulla natura di quei fenomeni, perdendo via via il contatto con la realtà, qualunque essa sia.

Da una parte, si può dire che il duo Benson e Moorhead l’ha fatto di nuovo: dopo la bellissima tripletta di Resolution, The Endless e Synchronic, e nonostante tutte le avversità e i pochi mezzi a disposizione (in questo caso il senso di svuotamento pandemico che non si fatica ad avvertire sottopelle), ha confezionato un film di fantascienza complesso e divertente, costruito attraverso l’intesa registica dei due e la resa dignitosa di un set recitativo intimista con due protagonisti pressoché soli e confinati in un appartamento per la maggior parte del tempo. Dall’altro, forse in virtù di quella stessa complessità ma forse a causa di un’andamento farraginoso della messinscena, si fa davvero fatica a seguire la vicenda, che sfocia in un nonsense caotico e incomprensibile che tira in ballo un numero eccessivo di proposte e immagini, creando una composizione mossa da forza centrifuga e fatta dunque di troppi elementi spalmati in superficie in contrasto con un nucleo destinato a rimanere privo di un contenuto intrinseco o di un significato.
SPOILER: Chi dovesse confidare in un film collegato ai precedenti tre (citati solo attraverso vistosi ma autoconclusivi easter egg), a netto di collegamenti non ancora svelati, potrebbe rimanere deluso: il sostrato dei loop temporali e delle incredibili convergenze/coincidenze spazio-temporali è vagamente simile, ma il piccolo universo condiviso di Benson & Moorhead sembra parecchio distante da quello straniato e malinconico di Something in the Dirt.

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HATCHING Pahanhautoja
(Finlandia 2022 – regia di Hanna Bergholm)

La dodicenne Tinja è una ginnasta che vive all’ombra dell’ingombrante figura materna: costretta ad allenamenti estenuanti per vincere competizioni alle quali non è realmente interessata a partecipare, sempre in ordine – come la casa perfettamente arredata in cui vive insieme al padre e al fratello ugualmente succubi della mater familiae – per poter apparire nelle registrazioni del vlog di sua madre, la cui identità online è quella di una mamma sprint dalla vita perfetta. Ma la vita di Tinja, di sua madre e della sua famiglia è tutt’altro che perfetta e l’angoscia legata alle esigenze performative della ragazza non tarderà ad aprire delle crepe sulla superficie liscia di un’apparenza serena e per poi schiudersi e dare vita a comportamenti caotici proprio quando troverà e accudirà uno strano uovo di grosse dimensioni…

Hatching è un favolesco coming of age a tinte horror, dal messaggio chiaro e semplice e dall’estetica freddamente iperrealista, basato sull’ambiguo rapporto tra elementi contrastanti: la mostruosità nascosta nel bello e la bellezza occultata dalla deformità, il male insito in atteggiamenti melliflui e carezzevoli e il bene racchiuso in gesti violentemente liberatori, la luminosa noncuranza che ignora problemi e disagi alla luce del sole e il buio che diventa un rifugio per chi vuole scapparne, l’ipocrisia della gradevolezza contro la realtà della ripugnanza. [🠖Leggi la mia recensione del film e l’intervista ad Hanna Bergholm su Non Aprite Questo Blog]

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WE’RE ALL GOING TO THE WORLD’S FAIR
[Stati Uniti 2021 – regia di Jane Schoenbrun]

Un’adolescente prende parte a una sfida online chiamata “World’s Fair”, una di quelle sfide raccontate su internet – spesso in maniera fuorviante, o inventate di sana pianta e rese reali grazie ai fenomeni dell’emulazione, com’è accaduto con il famigerato gioco della Blue Whale – che consiste nel guardare un misterioso video e raccontare con una serie di filmati inquietanti i cambiamenti che da quel momento iniziano a verificarsi nella sua vita e sul suo corpo. Non è chiaro, e non è nemmeno importante, se la ragazza stia manifestando reali segni di disagio o stia producendo filmati ad hoc per il gusto di spaventare qualche sconosciuto su internet: quel che conta è la sensazione di immensa solitudine, di lontananza dalla vita, d’impressionante distacco emotivo nell’esistenza di un’adolescente lasciata a sé stessa e oramai immersa in una dimensione nichilistica e deprimente in cui nulla accade. We’re all going to the world’s fair è un film sperimentale, con poca narrazione, pochissimi dialoghi e due soli personaggi ad animare un racconto in cui il tempo non sembra mai scorrere e la realtà non avere più alcuna importanza. Più triste che da spavento, ma interessante per il resoconto di fatti inquietanti che vanno a finire nelle fangose superfici dell’internet raccontato sotto forma di singolari creepypasta. (Film già visto al ToHorror film festival 2021, se n’era parlato qui).

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RAQUEL 1,1
[Brasile 2022 – regia di Mariana Bastos]

Trasferitasi in un paesino della provincia insieme al padre per ricominciare una nuova vita dopo aver assistito all’assassinio della madre a opera del suo compagno violento, la religiosissima adolescente Raquel fa amicizia con due ragazze della chiesa locale, con le quali si trova a uscire, divertirsi e scambiare idee sulla fede, i dogmi e l’affidabilità delle scritture. Resasi conto di quanto siano misogini e violenti alcuni passaggi delle sacre scritture, la ragazza convince sé stessa e le altre di dover intraprendere un’operazione di revisione e ri-scrittura della Bibbia, rivelando una vera e propria ossessione di natura mistica che non porterà a nulla di buono e che dovrà fare i conti con l’altrettanto potente bigottismo degli altri parrocchiani, pronto a sfociare in atti di violenza sempre più espliciti.
Raquel 1,1 è un film drammatico sulla violenza di genere e il fanatismo religioso girato e interpretato in maniera essenziale, semplice e composta. Di horror nemmeno l’ombra, se non nel finale che può ricordare quello del bellissimo e scostumato film francese “E non liberarci dal male“, ma invertito di segno. (Film già visto al ToHorror film festival 2022, se n’era parlato qui).

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SLR
(Thailandia, 2022 – regia di Lertsiri Boonmee e Vutichai Wongnophadol)

Dan è un ambizioso studente di fotografia, in piena crisi creativa per l’imminente consegna della tesi di laurea: c’è in ballo il suo destino, la sua carriera e una trasferta a New York. Il relatore di Dan, altrettanto ambizioso, gli promette una borsa di studio per il continente americano, a condizione di vedere scatti eccellenti, realizzati con una reflex unica nel suo genere, appartenuta a una studentessa morta poco tempo prima. Inutile dire che sulla fotocamera grava una maledizione: i soggetti immortalati nei bellissimi ritratti che Dan scatta e sviluppa un giorno dopo l’altro, vanno incontro a una morte terribile, improvvisa e inspiegabile. Combattuto tra l’aspirazione a concludere il suo progetto artistico e quella a credere all’incredibile, nel ragazzo inizialmente prevale lo scetticismo del vivere sulla propria pelle un’esperienza paranormale che inizia a consumarlo e cambiarlo sia nel corpo che nella psiche. Una volta arresosi all’idea che la maledizione esiste davvero, dovrà insieme ai suoi due amici scoprirne l’origine e il funzionamento, per provare a fermarla prima che sia troppo tardi anche per lui.
SLR è un horror ambizioso ma non esattamente all’altezza delle sue aspirazioni: con risultati molto alterni nella recitazione e nella messa in scena innanzitutto, che propongono rispettivamente interpretazioni poco memorabili e una lentezza generale interrotta solo dalle sincopi degli inevitabili jumpscare in crescendo verso il finale. E con l’investimento di tempo, denaro, risorse ed energie nella creazione di un goffo mostro-demone in CGI che non incute alcun timore, anzi, fa sorridere.

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SHOW ME THE GHOST
(Corea del Sud, 2021 – regia di Eun-Kyoung Kim)

Hodu e Jeji, amici da una vita sono due adolescenti in cerca di stabilità: lui è appena riuscito a trovare una bellissima casa in affitto a una cifra molto ragionevole, e lei senza far troppi complimenti si autoinvita in quella casa, in attesa di trovare lavoro e una nuova sistemazione. L’impacciata convivenza tra i due viene ulteriormente turbata dal verificarsi di strani fenomeni, inizialmente sporadici e via via sempre più frequenti, segni inequivocabili della presenza di un fantasma. I due adesso dovranno trovare un modo per sbarazzarsi dello spirito inquieto, prima che lo spirito inquieto si sbarazzi di loro.
Commedia horror canonica con qualche elemento k-drama, Show me the ghost è una storia di fantasmi rancorosi che si legano alla casa in cui è avvenuto il loro trapasso – davvero nulla di nuovo sotto il sole – e che aspettano solo di essere ascoltati, compresi e vendicati. Ai protagonisti spetta l’ingrato compito di indagare sulla faccenda a suon di spaventi, apparizioni e momenti sinistri – ma anche di equivoci, goffaggini e gag tipiche del repertorio. Sarà la recitazione un po’ rigida del cast, sarà la totale mancanza di originalità nelle idee e nella loro esecuzione, tant’è che questo film intrattiene e diverte molto meno di quanto ci si potrebbe aspettare.

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