Ancora una volta si torna a tirare le somme di un anno che ha visto sfilare parecchi horror in passerella, con oscillazioni piuttosto vistose tra la rassicurante comfort zone degli immancabili sequel, prequel, spin-off e reboot – che ancora una volta questo blog si concederà il lusso di ignorare per lo più disinteressandosene in quanto fuori target rispetto alla mission di dare spazio ai film meno chiacchierati – e il territorio impervio popolato dalle tantissime idee originali, più o meno riuscite e memorabili, che non hanno ancora trovato una distribuzione in Italia.
Per questo motivo non si parlerà degli horror più famosi che, nel bene o nel male, hanno ricevuto parecchia attenzione da pubblico e critica, poderosa pubblicità e una significativa permanenza nelle sale cinematografiche: X e Pearl di Ti West, Nope di Jordan Peele, Men di Alex Garland, Crimes of the Future di David Cronenberg, Terrifier 2 di Damien Leone e persino Smile di Parker Finn, che sono molto piaciuti a chi scrive.
Ecco dunque a seguire i film horror più interessanti del 2022 secondo Horror Vacui, accompagnati dalle parole chiave di riferimento.
DISCLAIMER: sono presenti spoiler grossi come ossobuchi.
FILM PREFE DEL 2022
DEADSTREAM [Stati Uniti – regia di Joseph e Vanessa Winter]
#commedia horror #found footage #fantasmi
La vicenda di Deastream segue la disavventura, trasmessa in diretta durante una lunghissima live, vissuta dallo streamer Shawn Ruddy, specializzato in video estremi e particolarmente avventurosi, qui alle prese con la tappa obbligata nel cursus honorum di qualsiasi influencer: ripulirsi l’immagine sui social e riconquistare i follower persi dopo una shitstorm. Nel corso di un’interminabile notte, Shawn si rinchiude in una casa abbandonata infestata dagli spiriti, per documentare gli incontri paranormali che di certo farà. Anche le entità presenti in casa sembrano molto interessate alla sua live. C’è poco da lambiccarsi: il miglior horror del 2022 è una commedia. Che non è una commedia qualsiasi, ma uno dei film più divertenti e ben fatti degli ultimi anni. Deadstream racchiude in sé, interiorizza e risputa sotto forma di parodia un po’ tutto: il found footage, l’orrore tecnologico, l’omaggio ai grandi titoli del passato, la passione per gli effetti speciali prostetici e la capacità di gestire quelli computerizzati, le trovate brillanti e persino la valorizzazione dei tanto vituperati jumpscare.
HELLBENDER [Stati Uniti – regia di Toby Poser, John e Zelda Adams]
#coming of age #streghe
Izzy è una hellbender – cioè un ibrido tra un demone, una strega e un animale selvatico – ma non ne ha la minima idea. All’apparenza, è solo un’adolescente cresciuta in solitaria, in un luogo di montagna lontano dalla civiltà, senza mai andare a scuola e come unico riferimento e compagnia la madre, che è anche la sua sua insegnante, la sua migliore amica e la sua partner nella band metal Hellbender di cui fa parte senza mai esibirsi in pubblico. Niente uscite in città, niente amici né parenti. Perché, a detta della madre di Izzy, la ragazza sarebbe malata e contagiosa. Complice un incontro fortuito con un’ altra ragazza, Izzy scopre di non essere affatto malata, né tantomeno infettiva, ma di essere stata tenuta isolata dagli altri perché pericolosa, inconsapevole della sua natura e del suo potenziale distruttivo: sarà la madre a insegnarle suo malgrado tutto su ciò che è e che può fare, scatenando un feroce conflitto con la figlia, che non condivide i suoi stessi valori.
Inventando una mitologia che combina il folklore, la stregoneria e la demonologia, Hellbender racconta attraverso immagini molto suggestive un coming-of-age del tutto fuori dagli schemi, approfondendo il tema della maternità, della scoperta di sé, delle ingombranti limitazioni della natura umana e delle regole imposte da un sistema arcaico e poco comprensibile. Se guardandolo si ha l’impressione di osservare un quadretto familiare atipico ma ben affiatato, è perché le attrici, che sono anche registe e sceneggiatrici – sono madre e figlia nella vita reale, affiancate altresì dal padre e dalla sorella. Ma non bisogna farsi trarre in inganno dall’apparente semplicità di questo film a conduzione familiare, realizzato con un budget ridotto e durante la quarantena, poiché la messa in scena è tutt’altro che casereccia o dilettantistica: Hellbender è uno dei migliori film indipendenti visti negli ultimi tempi, memorabile perché diverso dal solito e molto ben realizzato.
SPEAK NO EVIL [Danimarca/Olanda – regia di Christian Tafdrup]
#drammatico #realistico #cattiveria umana
Una giovane famiglia danese conosce una simpatica famiglia olandese durante una vacanza. Per educazione, vengono scambiati convenevoli e si decide di rimanere in contatto. Gli olandesi invitano i nuovi amici a trascorrere un fine settimana a casa loro all’insegna dell’amenità. Per educazione, l’invito un po’ fuori luogo viene accettato. L’atmosfera inizia ben presto a diventare pesante, gli ospiti assumono comportamenti che vanno dal bizzarro all’inquietante, in casa c’è qualcosa che non va e i danesi iniziano a dubitare di aver fatto la cosa giusta, entrando in casa di quelli che in fin dei conti sono dei perfetti sconosciuti. Ma per educazione, viene deciso di rimanere in quella casa. Col passare delle ore, gli olandesi diventano sempre più maleducati, bizzarri, aggressivi, subdoli, inadeguati, invadenti, e i danesi preoccupati. Ma per educazione, si evita di fare troppi commenti e di rendere le cose più spiacevoli di quanto non siano già. Quando finalmente i danesi si renderanno conto di essere in grave pericolo, sarà troppo tardi e non saranno certo le loro buone maniere a salvarli. Dimostrando quanto sia sottile il confine tra gentilezza e remissività, tra ingenuità e stupidità, tra educazione e indottrinamento, tra rispetto delle regole e obbedienza bovina, Speak no evil mette in scena in maniera incredibilmente forte e dolorosa, fastidiosa come un ago conficcato sottopelle, una sensazione di angoscia e di inspiegabile impotenza di fronte al male, che travolge, sconfigge e distrugge ogni cosa: l’amore, la famiglia, la speranza, il corpo, la mente.
Volendo scorgere una metafora esistenziale, il film rappresenta la placida rassegnazione con la quale lasciamo che il male incontrato nel corso della vita rovini il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro, ci strappi via sogni e qualsiasi ambizione positiva. Ma anche limitandosi a guardare la storia per quello che è, Speak no Evil rimane un enorme pugno allo stomaco, un horror emotivo pronto a sconquassare lo spettatore, togliendogli ogni senso di confort dal primo all’ultimo fotogramma.
SOFT & QUIET [Stati Uniti – regia di Beth de Araújo]
#razzismo #realistico #cattiveria umana
Emily è una giovane maestra d’asilo, tutta coccole e sorrisi coi bimbi. Un pomeriggio, dopo lavoro, prepara una bella torta alla ciliegia e la porta nella sala comune della chiesa, dove ha organizzato un piccolo incontro e rinfresco con altre donne, conosciute da sempre in paese o incontrate da poco, tutte unite da una passione comune, che potrebbe benissimo essere il punto croce, la canasta, il ricamo, e invece no. Tra una chiacchiera e un convenevole, scartata la torta alla ciliegia, con meravigliata sorpresa, le donne notano la decorazione che Emily ha intagliato sulla parte superiore del dolce: una svastica nazista.
Come una secchiata di acqua gelida, i discorsi comuni di un gruppo di donne di mezz’età della più mediocre provincia americana si trasformano in racconti, fantasie malate e aneddoti distorti, animati dal più spregevole razzismo: c’è chi se la prende col movimento Black Lives Matter, chi pensa che sia in atto un’invasione culturale che porterà i bianchi a estinguersi, chi vede negli immigrati coloro che rubano il lavoro alla gente del posto – insomma, in ognuna di quelle donne alberga una diversa sfaccettatura ideologica del suprematismo bianco. Gli eventi (che si svolgono in tempo reale nel corso di un’interminabile serata) prendono una piega sempre più agghiacciante quando il gruppetto di donne ha un alterco con due donne di origine asiatica e decide di introdursi nella loro abitazione, con intenzioni poco chiare: sottrarre i passaporti? Mettere a soqquadro la casa? Farle spaventare?
Incoraggiandosi ma anche influenzandosi a vicenda, le donne si spingono pian piano sempre più in là rispetto ai limiti d’azione concordati, raggiungendo il punto di non ritorno in un’escalation di violenza, animate da puro odio razziale, da un penoso istinto conformista, dall’assenza di umanità.
Soft & Quiet è un altro enorme pugno allo stomaco, una visione che farà sentire sempre più a disagio e che ci spiattella in faccia, senza troppi complimenti, gli orrori della vita reale, di cose che sono realmente accadute, accadono ancora oggi, accadranno in futuro.
A WOUNDED FAWN [Stati Uniti – regia di Travis Stevens]
Meredith, una giovane donna in carriera sopravvissuta a una relazione violenta, si sente finalmente pronta a tornare in pista e così, conosciuto un uomo affascinante di nome Bruce che come lei lavora nel mondo dell’arte, butta il cuore oltre l’ostacolo e decide di passare un fine settimana romantico nel suo chalet isolato di montagna. Red flag? Red flag. L’uomo è infatti un serial killer di donne, che uccide con ferocia, istigato da un personaggio immaginario travestito da gigantesco gufo, dice lui, per poi occultarne il cadavere in alcuni barili nei pressi dello chalet. Meredith, resasi conto troppo tardi del pericolo che sta correndo e comunque impossibilitata a sovrastare il suo interlocutore, ha poco tempo e poche chances a disposizione per provare a salvarsi, o magari a vendicarsi. Strutturato come una tragedia divisa in atti, A wounded fawn attinge dal mito greco delle Erinni, le personificazioni femminili della vendetta, per ricalcare – e al contempo uscire fuori dagli schemi – il più classico meccanismo del gatto e del topo, con l’inevitabile inversione dei ruoli tipico dei film a tema revenge, e con un bel plot twist finale, ironico, visionario (o meglio, allucinatorio) e graffiante.
Quest’anno peraltro sembra essere stato glorioso per i film con argomento “appuntamenti finiti in tragedia”: oltre a questo, il trascurabile Fresh e Those who walk away, che citerò più in là.
TWO WITCHES [Stati Uniti – regia di Pierre Tsigaridis]
#streghe #possessione #occultismo
A quanto pare, quando una strega muore, lascia in eredità a un’altra donna a lei vicina – magari la figlia, o la sua discendente più prossima – i suoi poteri. E in questo caso, anche la sua malvagità. Le streghe con le quali si ha a che fare qui infatti, non sono donne vittime di un sistema patriarcale, demonizzate e perseguitate per motivi insulsi – né sono pacifiche custodi di metodi e rimedi curativi naturali. Loro sono streghe cattive, che vanno in giro a gettare maledizioni e rovinare le vite altrui per il puro gusto di farlo. Questa premessa, pur nella sua debolezza narrativa, apre il sentiero a un ampio ventaglio di possibilità: così, nella prima parte del film, una donna incinta attira senza volerlo le attenzioni, lo sguardo malevolo – il malocchio insomma – di un’anziana signora che non conosce e che semplicemente la fissa e la segue, le dà incubi e allucinazioni e tormenta lei e chiunque le stia intorno. Cosa mai potrà volere una vecchia stregaccia da una donna che porta in grembo un tenerissimo e succulento bambino? Nella seconda parte del film, assistiamo ai bizzarri e inquietanti cambiamenti accorsi a Masha, una studentessa di college mentalmente instabile che acquisisce i suoi malefici poteri da strega nel momento in cui sua nonna, morendo, li perde. Two Witches è un film a basso budget dalla regia non troppo raffinata, con buone interpretazioni, un sonoro convincente e un’atmosfera angosciante, che ripone parecchia fede (forse troppa) nei jumpscare e nell’effettistica mista CGI e prostetica – ma anche in parecchie scene genuinamente spaventose, che sono il motivo principale per cui questo film si trova qui.
MEGALOMANIAC [Belgio – regia di Karim Ouelhaj]
#serial killer #malattia mentale #revenge
Nel 1997, in Belgio, vennero trovati i resti di cadaveri fatti a pezzi di cinque donne dentro dei sacchi della spazzatura abbandonati per strada. A oggi, il serial killer responsabile di questi omicidi – soprannominato Macellaio di Mons – non è mai stato trovato. Questo film, partendo dallo spunto di cronaca, ipotizza in maniera tanto speculativa quanto suggestiva che il Macellaio di Mons abbia avuto due figli, nati dalle sue vittime, traumatizzati sin dall’infanzia dalla visione e dalla percezione di abusi e omicidi e in qualche modo plagiati e plasmati da una dimensione mortifera: Felix e Martha vivono insieme in una grande casa decadente e piena di stanze in cui sono avvenute – e avvengono ancora – torture e uccisioni a opera del primo e con la tacita complicità della seconda. Martha, dalla salute mentale già parecchio fragile, fa i conti con una lenta ma inesorabile discesa nella follia. Dopo ripetuti stupri da parte dei colleghi di lavoro, il labile legame della donna con la realtà circostante si spezza, lasciando spazio a un’oscurità più viscosa della pece che sembra inghiottire ogni angolo buio della casa in cui vive.
Il confine tra vittima e carnefice smette di esistere: Felix è diventato un serial killer perché suo padre glielo ha insegnato; Martha finisce per internalizzare gli abusi subiti perché nessuno ha voluto difenderla; i due si sottraggono alle regole di una società cattiva e brutale che non è stata in grado di prendersi cura di loro.
Magalomaniac, attraverso immagini violente e d’impatto, confeziona il racconto estremamente cupo di esistenze del tutto prive di speranza, tracciando una parabola che spazia dall’orrore psicologico al revenge, sul solco di un horror estremo che gioca tanto sulle suggestioni allucinatorie quanto sulle visioni esplicite.
Di questo film si era già parlato a proposito del Tohorror Film Fest 2022.
YOU ARE NOT MY MOTHER (Irlanda – regia di Kate Dolan)
#maternità #changeling #malattia mentale
L’adolescente Char vive una vita incasinata in una famiglia ancora più incasinata: sua madre sembra divorata da un disturbo psichico che la rende ora catatonica, ora assente, ora iperattiva e addirittura aggressiva, ora una persona completamente diversa; sua nonna invece è costantemente in apprensione per qualcosa che tiene nascosto, piuttosto ostile nei confronti di sua figlia nonostante la malattia e – a quanto dicono i vicini – pare che molti anni prima abbia tentato di uccidere proprio sua nipote Char dandole fuoco. Non che fuori dalle mura domestiche le cose le vadano meglio: i compagni la bullizzano, i concittadini la evitano. Finché un giorno la madre di Char scompare all’improvviso nel nulla, per poi fare ritorno a casa completamente cambiata – allegra ed energica, eppure diversa da sé in maniera agghiacciante.
You are not my mother è un racconto di solitudine e legami, che si interseca con il folclore irlandese e col mito del changeling, qui anche metafora del doloroso rapporto d’interscambio affettivo tra una madre assente e una figlia costretta a crescere in fretta e dell’ancor più dolorosa gestione della malattia mentale di una persona amata. Film d’esordio dell’irlandese Kate Dolan, che costruisce attraverso un cast a predominanza femminile un horror ben interpretato da tre donne, i cui personaggi sono simbolo dei tre stadi della vita; la regia è priva di guizzi ma anche di sbavature, il ritmo della narrazione procede spedito tra pochi ma fortissimi spaventi, rivelazioni deprimenti e fasi di tensione smorzate da una cupezza mistica che sa di leggende tragiche raccontate intorno al focolare.
YOU WON’T BE ALONE
(Serbia-Australia-Regno Unito – regia di Goran Stolevski)
#folclore #streghe #esistenziale
In un villaggio rurale macedone del 1800 si aggira una strega, animata da rabbia e disprezzo per gli uomini che anni prima l’avevano condannata al rogo, in grado di assumere l’aspetto di ogni persona o animale che uccida fagocitandone le interiora. Nota come “la vecchia serva Maria”, essa conduce una vita estremamente solitaria in virtù del suo odio, finché un giorno decide di rivendicare la compagnia di un’adolescente, promessale al momento dalla nascita, da una madre nel tentativo disperato di trattenerla con sé il più a lungo possibile, vissuta fino a quel giorno in una grotta e ignara di cosa sia la vita tra gli uomini. Nevena viene dunque trasformata in una strega mutaforma e, allontanatasi ben presto dalla vecchia Maria della quale non comprende la crudeltà, inizia a scoprire il mondo, le emozioni e le contraddizioni umane assumendo l’aspetto (e la vita) di una giovane donna, poi di un uomo, poi di una bambina, realizzando quanto siano diverse tali condizioni tra loro e vivendo un costante senso di esclusione dalla comunità di appartenenza. Diversa per natura sia dalla strega mentore che dalle persone comuni del villaggio, ma comunque divisa tra la dimensione magica e quella umana, Nevena condurrà una vita sospesa tra solitudine e meraviglia, anelito alla vita e dispensazione di morte, passando da un corpo all’altro in un doloroso caleidoscopio esperienziale ed emotivo.
Struggente folk-horror rurale scarno di dialoghi ma ricco d’atmosfera, paesaggi e intense interpretazioni nonché film d’esordio del macedone-australiano Goran Stolevski (che per la sua sceneggiatura ha inventato una leggenda priva di corrispondenze reali ma ispirata ad antichi racconti balcanici di stregoneria), You won’t be alone è stato presentato al Sundance Film Festival 2022.
BARBARIAN (Stati Uniti – regia di Zach Cregger)
#grottesco #case misteriose #plot twist
Tess prende un appartamento in affitto su Airbnb a Detroit – la città dalla storia assurda che da decenni versa in pessime condizioni, andata in bancarotta nel 2013, abbandonata e spopolata da buona parte dei residenti, con interi quartieri sventrati e divenuti ad alto rischio e tantissime case in rovina – dove ha un colloquio di lavoro. Giunta all’uscio del posto, sorpresa: ci trova dentro un altro inquilino, Keith, che dice di avere anche lui prenotato la casa online utilizzando un altro servizio. Molto combattuta se credere o meno che si tratti di un’incredibile e sfortunata coincidenza e se accettare o meno di condividere la casa con l’altro ragazzo, del quale non si fida nemmeno un po’, Tess oscilla tra la normalissima prudenza di chiunque abbia un minimo di sale in zucca e il senso d’avventura di chi è costretta ad arrangiarsi e decide di ignorare quella viscerale sensazione di pericolo imminente mentre, completamente sola, si trova in una casa che non conosce in compagnia di un perfetto sconosciuto, in uno dei quartieri più scalcinati e malfamati di una città in cui non era mai stata prima. Ma con Barbarian è meglio non lasciarsi cullare dalla rassicurante linearità delle deduzioni logiche: in quella casa c’è davvero qualcosa che non va, ma nulla è come sembra.
Un po’ commedia, un po’ grottesco, un po’ metaforico commentario sociale sullo stile di vita statunitense, un po’ horror tradizionale che mette in campo tematiche abbondantemente abusate, avendo cura però di scompigliarle per bene per confezionare un film dall’andamento oscillatorio, in grado di piacere un attimo prima e lasciare perplessi un attimo dopo, Barbarian eccelle nell’arte di prendere gli spettatori per i fondelli, facendoli ricredere sulla loro capacità deduttive.
SKINAMARINK [Stati Uniti – regia di Kyle Edward Ball]
#sperimentale #found footage #bambini
Due bimbi durante la notte si rendono conto che in casa sta succedendo qualcosa di strano: il loro papà sembra scomparso nel nulla, così come le porte e le finestre delle stanze, che si dileguano inspiegabilmente a intermittenza. Mentre nel frattempo si sentono rumori e voci che non dovrebbero assolutamente esserci, accadono cose spaventose e ogni angolo della casa, complice il buio e quell’angosciosa sensazione di pericolo tipica dei terrori notturni, mette i brividi.
Skinamarink è un film con luci ma soprattutto ombre, in senso figurato e non: si tratta di un found footage sperimentale e atipico (non è chiaro chi stia riprendendo, come e perché – né tantomeno si accenna alle circostanze di ritrovamento delle immagini riprese) in cui, per la maggior parte del tempo, non si vede praticamente nulla. Anzi, si vede il buio. E si ascolta tantissimo: le voci, i sussurri, le grida, i suoni e le musiche sovrastano nettamente la parte visuale. Si viene a conoscenza dei personaggi senza praticamente mai vederli, si intuisce quel che succede solo a condizione di lasciare che l’immaginazione vada a riempire i vuoti visivi e narrativi, la mancanza di avvenimenti e spiegazioni, le inquadrature sgranate e parziali.
Un po’ come in certi incubi in cui non si riesce a vedere chiaramente ma si sa cosa sta succedendo e si ha sempre più paura. Questo film parla il linguaggio dell’inconscio (con qualche manierismo di derivazione lynchiana) e risulta quasi impossibile comprenderlo se non chiudendo gli occhi. Skinamarink, col suo enorme fascino concettuale, è riuscito ad appassionare, incuriosire, far parlare di sé e dopo un’attenta riflessione a freddo, a farsi perdonare alcuni vistosi vulnus che rischiano di rovinare l’esperienza visiva, come la lentezza della messinscena, l’incomprensibilità della narrazione e l’eccessiva oscurità delle immagini.
Di questo film si era già parlato a proposito del Tohorror Film Fest 2022.
INCANTATION [Taiwan – regia di Kevin Ko]
#demoni #rituali #possessione
Una donna di nome Ruo-nan fatica a riottenere l’affido di sua figlia Dodo dopo un lungo periodo di instabilità psichica, avvenuto a seguito di una terrificante esperienza avuta anni prima in una strana comunità isolata di un villaggio rurale, dove gli abitanti venerano una pericolosa divinità e dove infrangere i tabù religiosi ha come conseguenze la follia, la morte o l’attacco di una maledizione eterna. Attraverso una serie di flashback, via via sempre più chiari e dettagliati, il procedere erratico di Ruo-nan acquisisce senso e svela un’inesorabile discesa nei meandri del misticismo più oscuro, tra rituali segreti, sacrifici e avvenimenti inspiegabili, mentre il presente della donna si deteriora di giorno in giorno, macchiato dalle azioni commesse anni prima, le cui conseguenze si riversano come una tara ereditaria sulla piccola Dodo. E quindi, come annullare una simile maledizione? La risposta – svelata nella parte finale del film – mette addosso i brividi.
Incantation è in parte un found footage/mockumentary che non segue pedissequamente le regole di questo sottogenere; poi è anche un horror su folklore e rituali buddhisti (inventati di sana pianta ma di grande effetto) che trae ispirazione dall’idea che il karma – buono o cattivo che sia – non possa essere annullato ma solo tramandato e condiviso. In questo caso da chiunque, inconsapevolmente, entri in contatto con Ruo-nan e ne replichi i gesti e il mantra “Hou-ho-xiu-Yi, si-sei-wu-ma”, ripetuto fino allo sfinimento per un motivo ben preciso. In tralice emerge anche la metafora della maternità dolorosa, segnata dalla tragedia e dalla solitudine, e sfociata nell’ereditarietà di una perpetua tribolazione, di un sempiterno anatema inestinguibile tramandato di madre in figlia sotto forma di visioni demoniache, possessioni e pazzia.
Inevitabile l’accostamento al thailandese The Medium, che ha preceduto di un anno la produzione taiwanese e del quale questo film sembra derivare. Ma Incantation non lesina momenti ad alto coefficiente orrorifico, da far accapponare la pelle.
V/H/S 99 [Stati Uniti – registi vari]
#antologia #found footage #inferno
Il franchise di V/H/S – horror antologico improntato all’eccesso e al ritrovamento di filmati impressi su videocassetta – continua imperterrito a infoltire la sua progenie: se lo scorso anno era toccato al notevole V/H/S/94, il 2022 ha continuato il suo viaggio nei ritrovamenti oscuri degli anni Novanta con cinque folli storie legate tra loro da ambientazioni infernali e presenze ctonie: tra questi, si fa notare il frammento “Ozzy’s Dungeon” diretto da Flying Lotus (che ricordiamo per quella follia weird di Kuso) in cui ci viene spiattellato in faccia, senza troppi preamboli e complimenti, il ricordo di una certa malsana passione statunitense per i programmi televisivi che facevano carne da macello dei bambini che vi partecipavano, qui in maniera un po’ troppo letterale, in una versione estrema di giochi senza frontiere con tanto di dungeon sottennarea che conduce a qualcosa di assurdo. Non è da meno l’episodio finale, il migliore, il più divertente e geniale di questo film, non a caso diretto dagli stessi Joseph e Vanessa Winter che in cima a questo lungo elenco di grandi horror, si sono fatti notare con Deadstream: “To Hell and Back“, lo sgangherato report di un rituale demoniaco di famiglia con tanto di cameramen ingaggiati per conservarne il felice (?) ricordo in casa – dove qualcosa va terribilmente storto, mentre le registrazioni immortalano le incredibili sequenze di un viaggio agli inferi al contempo esilarante e terrificante.
MAD HEIDI [Svizzera – regia di Johannes Hartmann e Sandro Klopfstein]
#commedia #swissploitation #splatter
Svizzera, esterno Alpi. In una dimensione storico-temporale diversa dalla nostra ma che somiglia in maniera bizzarra e demenziale a quella della Germania nazista, in Svizzera si è affermato un regime (alimentare) totalitario che costringe ad esaltare, adulare e mangiare il formaggio e che perseguita attraverso torture, carcerazioni, detenzioni ed esecuzioni sommarie una categoria di persone alquanto sgradite: gli intolleranti al lattosio e i contrabbandieri di latticini di origine non vaccina.
In questo contesto, Heidi vive serenamente la sua vita a casa del nonno e amoreggiando nei fienili con lo stilosissimo pastore Peter. Che però viene fatto fuori dalle simil-gestapo casearie per aver smerciato del formaggio di capra, crimine gravissimo. Imprigionata e sottoposta a una lunga serie di vessazioni, la furente Heidi ha come unico obiettivo la vendetta e l’abbattimento del regime. Per farlo, avrà bisogno di percorrere un sentiero (di montagna) irto e pieno di pericoli. Ci sarà un grosso spargimento di sangue e di formaggio
Nell’ambito dell’exploitation geografica, esistono l’Ozploitation per l’Australia, la Canuxploitation per il Canada, e da oggi con questo film c’è anche la Swissploitation per la Svizzera, che non voleva essere da meno inaugurando questo genere: non è chiaro quanti proseliti farà questa pellicola, ma al momento è il primo e unico esponente.
Come si potrà intuire, Mad Heidi è un film pesantemente cazzone, una parodia piuttosto divertente formata per il sessanta percento da luoghi comuni, battute e ammiccamenti sulla Svizzera e i suoi cliché (dall’onnipresente formaggio alla puntualità, dal cioccolato al latte all’abbigliamento tradizionale) e per il restante da citazioni e omaggi a film come Kill Bill o Machete e al calderone dell’exploitation.
Un lavoro molto notevole, tenuto anche conto si tratta di un progetto indipendente, del tutto finanziato con una gloriosa campagna su Kickstarter durata più di tre anni.
SISSY [Australia, regia di Hannah Barlow e Kane Senes]
#social media #slasher #commedia horror
Cecilia – in arte “@Sincerely Cecilia” è un’influencer di successo, una mental health coach, una di quelle che insegnano pratiche di mindfulness, respirazione anti-panico, atti di ordinaria gentilezza – insomma, una persona inquietante. A confermare che ci sia qualcosa che decisamente non va nella testa di Cecilia è il ricordo di un’esperienza traumatica accadutale dieci anni prima a scuola, una storia di amicizie infantili e gelosie conclusasi con il non proprio accidentale deturpamento del volto di una compagna di Cecilia (che allora veniva chiamata Sissy) da parte di quest’ultima. Incontrate per caso le amiche d’infanzia e ricevuto un inspiegabile invito alla festa di addio al nubilato di una di loro proprio in casa della ragazza che aveva sfigurato anni addietro, Cecilia viene sottoposta a un quantitativo insostenibile di trigger negativi che nessun finto esercizio di mindfulness di instagram riuscirà a rendere sopportabili nella vita reale: insultata, derisa e bullizzata in maniera più o meno gratuita, l’influencer non potrà fare altro che dare sfogo agli agiti psicotici della sua debolissima mente.
Sissy è una brillante commedia horror che in maniera intelligente decide di non concentrarsi sull’horror tecnologico né tantomeno di demonizzare i social e internet (qui visti come semplice elemento propulsore e camera di risonanza di un disturbo mentale preesistente) ma che privilegia il divertissement dello slasher in un crescendo di situazioni-limite e coincidenze sfortunate.
THE CELLAR [Irlanda – regia di Brendan Muldowney]
#casa infestata #sovrannaturale #oltretomba
Giacché repetita iuvant, ancora una volta recitiamo la filastrocca dei comportamenti virtuosi indotti dal buon senso comune, utili a non morire male specialmente nei film horror:
Case antiche e a basso prezzo non comprare,
negli scantinati e in soffitta non andare,
le porte chiuse devono rimanere,
non serve andare a controllare
cosa sia stato quel rumore
né tantomeno ci si deve separare.
La famiglia Woods non seguirà uno solo di questi preziosissimi consigli: appena trasferitasi in una vecchia casa comprata all’asta, nemmeno disfatti gli scatoloni, al primo giorno di permanenza, succede il peggio. I genitori sono fuori per una cena di lavoro, i figli sono rimasti soli in casa. Salta la luce, il contatore – fatalità – è in cantina, la figlia maggiore ha una paura immensa ad andarci ma la madre la assiste per telefono, suggerendole per distrarsi di contare ad alta voce ognuno dei dieci scalini fino all’arrivo. Ma i numeri declamati ad alta voce proseguono molto oltre e della figlia non si troverà più traccia in casa. E sarà la madre a dover indagare sulla scomparsa facendo ricorso al suo senso dell’osservazione, a concetti cabalistico-matematici, alla sospensione dell’incredulità e a tanto coraggio, perché quella casa nasconde al suo interno, ovviamente, un terribile segreto.
The Cellar è un horror tradizionale, certamente non unico nel suo genere, girato e recitato senza infamia né lode alternando momenti di vera suspense ad altri di caos ingestibile, che cita più o meno apertamente la trilogia della morte di Fulci e che rientra nel calderone dei guilty pleasure da gustarsi in una notte buia, tempestosa e piena di cliché.
VIRUS-32 [Uruguay – regia di Gustavo Hernández]
#zombi #violenza
Ammettiamolo: il 2022 non è stata una grande annata per gli zombi e forse stiamo assistendo a un lento e progressivo declino del genere consacrato ai morti viventi, destinato a una noiosa ripetitività. Il solo fatto che qualcuno abbia sentito la necessità di fare un remake del geniale One cut of the dead, ad esempio, dovrebbe essere un indicatore abbastanza esplicito della crisi in atto. Ad ogni modo, non c’è horror senza epidemia zombi e così succede che a Montevideo, in Uruguay, dal nulla e senza alcuna spiegazione o preambolo di sorta come oramai siamo abituati a constatare in molti film del genere, si diffonde un virus che trasforma le persone in individui estremamente aggressivi, violenti, forti e rapidi – ma mortali. L’unico modo per sperare di farla franca con loro è approfittare dei trentadue secondi di catalessi in cui piombano dopo aver morsicato e ucciso. Chiuse in un grande centro sportivo, una madre e la figlia dovranno fare di tutto per sopravvivere, con un continuo flusso di zombi incazzosi alle calcagna e un sopraggiungere ininterrotto di contrattempi di ogni sorta. Claustrofobico e sentimentale, Virus-32 non aggiunge nulla di nuovo al filone degli zombi movie, ma non arreca nemmeno danno, onorando degnamente la promessa di tensione, raccapriccio, e disperazione tipica di questi film.
NANNY [Stati Uniti – regia di Nikyatu Jusu]
Mami Wata, secondo un credo diffuso nell’africa centroccidentale, è una potente divinità femminile legata all’acqua, parimenti il ragno Anansi è un ibrido uomo-aracnide, figura al contempo eroica e ingannatrice. Aisha si è trasferita a New York dal Senegal e ha trovato lavoro come tata in una famiglia di ricconi dell’Upper East Side. Ha lasciato suo figlio in Senegal e sta provando a mettere da parte abbastanza soldi da farlo arrivare negli Stati Uniti. E mentre la vita lavorativa prende il sopravvento su tutto il resto, i soldi stentano ad arrivare e le cose si fanno sempre più strane in quella casa tanto ricca quanto fredda e infelice, come chi la abita, Aisha riceve spesso visita, nei suoi incubi e in attimi di dissociazione, da Mami Wata e dal ragno Anansi. Costa stanno cercando di dire questi spiriti alla giovane donna?
Nanny è un film drammatico con qualche elemento horror, una storia di dolore, perdono, distruzione e ricostruzione, integrazione e disintegrazione, speranza, disperazione e legami (con sé stessi, con le proprie radici) che si tendono senza mai spezzarsi o che si rafforzano. Parla di maternità e di senso di colpa e solo in seconda istanza parla di paura. L’intensità dei colori, perfettamente levigati, quasi scolpiti in una tavolozza dalle tinte calde in alcune scene e di tutte le sfumature dell’acqua in altre, aumenta il senso di mistero e di polarizzazione emotiva che sconquassano le giornate della protagonista. Impossibile non notare anche il taglio, sferzante e intelligente, con cui la regista afroamericana parla in tralice di razzismo e immigrazione, abbracciando finalmente il punto di vista non vittimistico di chi subisce micro-aggressioni e un certo tipo di sguardo da parte dei bianchi. Una differenza fondamentale rispetto a un altro film di quest’anno, apparentemente affine per tematica, trama e svolgimento: Good Madam di Jenna Cato Bass, film sudafricano sull’apartheid che evoca un immaginario affascinante ma che percorre un sentiero pericolosamente scivoloso, concentrandosi sulla debolezza delle vittime del razzismo, e non sulla loro forza.
SHE WILL (Regno Unito – regia di Charlotte Colbert)
#streghe #sovrannaturale #donne
Veronica Gent è un’attrice che, dopo un esordio traumatico nel mondo del cinema in giovanissima età, è cresciuta e nonostante i vari interventi di chirurgia estetica, ha raggiunto un’età che, nel mondo dello spettacolo, viene considerata da viale del tramonto. Rimasta fuori dalle scene e affrontata una doppia mastectomia, la donna decide di trascorrere un periodo di ritiro in uno strano resort per ricconi alternativi in cerca di un’experience profonda e significativa nella più sperduta e brumosa campagna scozzese, infestata dalla torba e dalle ceneri di quel che potrebbe essere carbone combusto oppure, secondo le leggende locali, l’eterno ricordo delle streghe bruciate vive tra i boschi circostanti.
Durante il difficile processo di guarigione, Veronica farà i conti con i traumi subiti, in passato e nel presente, dell’eco che essi hanno nella sua vita e con la necessità di riappropriarsi del suo corpo e fargli giustizia. Circondata da creduloni new age, modaioli annoiati in cerca di ispirazione e altri personaggi tossici del jet-set, la donna sviluppare la capacità di entrare in contatto non solo con quell’eco del suo dolore, ma anche con quella delle altre donne – le streghe condannate al rogo secoli prima – rimasto adeso come pece tra i rami e la terra.
Riflessione interessante e liberatoria sul femminismo, l’ageismo e sulla cultura dello stupro, She Will è un film elegante, simbolico e al contempo diretto, pregno di mistero e di immagini evocative, che si prende il suo tempo, forse dilungandosi troppo in una parte introduttiva a scapito di quella finale in cui il pathos fatica a trovare spazio.
MANDRAKE [Irlanda – regia di Lynne Davison]
#streghe #folclore
Secondo la leggenda, estrarre una mandragola richiederebbe il sacrificio di una vita e renderebbe possibile realizzare pozioni prodigiose per la fertilità e la guarigione.
Secondo quanto si dice in giro, una donna chiamata “Bloody” Mary Laidlaw sarebbe una strega: rimasta in carcere trent’anni per l’omicidio del marito, ora è in libertà vigilata, ma tutti sanno che nella sua casa e nel fitto bosco circostante succedono cose inquietanti.
Secondo quel che vede l’assistente sociale Cathy, incaricata di sorvegliare Bloody Mary e agevolarne il reinserimento in società, la donna ha un atteggiamento enigmatico e ammaliante, difficile da definire e da contenere: potrebbe essere una strega come potrebbe essere una donna dal passato difficile e dalle ferite a carne viva ancora aperte.
Quando due bambini spariscono proprio nel bosco vicino alla casa di Bloody Mary e proprio dopo il rientro della donna dal carcere, gli abitanti del paese non hanno dubbi su chi ne sia colpevole, mentre per qualche ragione Cathy vuole concederle il beneficio del dubbio.
Mandrake è un horror-folk drammatico, dall’atmosfera cupa parecchio rarefatta nel corso di una narrazione lentissima, quasi stagnante. La vicenda intricata, incentrata su un’indagine difficile, identità sconosciute e fatti rimasti sepolti nel passato, per quanto gradevole è resa indigesta da una mancanza di mordente e da una generale incomprensibilità, estesa al finale che non dissipa gli interrogativi accumulati, anzi ne crea di nuovi.
LUZIFER [Austria– regia di Peter Brunner]
#psicologico #isolamento #natura
“Dov’è il Diavolo?”. Questa la domanda, quasi un mantra, ripetuta ossessivamente da Maria, una donna dal passato oscuro che vive da anni in un’abitazione di fortuna arroccata tra le Alpi, in compagnia del figlio Johannes – adulto nel corpo ma con le facoltà mentali di un bambino – e di una lunga sfilza di demoni, interiori e non: l’alcolismo, lasciato alle spalle grazie a una conversione al fanatismo religioso; il lutto inconsolabile per la perdita del marito; le fissazioni ritualistiche di purificazione attraverso abluzioni in acqua o pire di fuoco; l’avversione alla tecnologia, nemica distruttrice del bene e della natura; la tendenza ipercontrollante e la costante ricerca del contatto fisico – ai limiti dell’approccio incestuoso – nei confronti del figlio, del tutto innocente e inconsapevole di cosa sia la realtà del mondo esterno, avendolo visto attraverso gli occhi e i racconti deliranti della madre. L’esistenza – pur discutibile ma semplice e pacifica – di Maria e Johannes viene sconvolta dall’irruzione di alcuni droni dal cielo, che arrivano insieme alla proposta, sempre più pressante e minacciosa, di vendere il loro terreno e lasciare la loro casa per consentire la costruzione di una pista da sci. Al rifiuto della donna seguiranno rappresaglie sempre più esplicite e violente, mentre questa tornerà a cadere in una spirale di perdizione: spetterà a Johannes salvarla, assumendo al contempo un ruolo salvifico e uno malefico.
Luzifer è un horror nichilista e d’atmosfera, in cui il non detto prevale sui dialoghi e sull’azione: con fatica si entra nel mondo di una madre sola e disperata, un mondo popolato di traumi, paure e lacerazioni. Con fatica si esce da quella stessa proiezione mentale che sembra influenzare tutto l’ambiente circostante, facendolo sembrare più buio, nebbioso, sporco e corrotto di quanto non lo sia già. Al contempo, la riflessione sulla prepotenza distruttiva dell’uomo nei confronti della natura, fornisce forse la risposta più plausibile e accurata alla domanda “Dov’è il Diavolo?”: è in quei droni che spiano, scandagliano e stalkerano gli abitanti delle valli alpine, è nelle ruspe che spazzano via ettari di bosco, è nella compiacenza di chi vende ciò che non gli appartiene, vendendosi l’anima.
MOLOCH
(Olanda, 2022 – regia di Nico van den Brink)
Betriek è una giovane donna che vive insieme alla figlia e ai suoi genitori in una casa nei pressi di una torbiera, conducendo una vita piuttosto ordinaria, almeno all’apparenza, turbata però da un vecchio trauma infantile – il suicidio inspiegabile e granguignolesco della nonna – e dalla sensazione che qualcosa di brutto stia per accadere. Convinta che sulla sua famiglia gravi una maledizione potentissima e ineluttabile ma non in grado di dare un volto o una spiegazione agli eventi, piccoli e grandi, che iniziano a sconvolgere sempre più la sua vita e quella dei suoi familiari, Betriek scoprirà quasi per caso un legame tra una vecchia leggenda del luogo e certe strane presenze nel bel mezzo della torbiera, complici alcuni corpi lì trovati e dissotterrati da un’equipe di ricercatori.
Moloch, che già dal titolo evoca creature e suggestioni tipiche del folk horror, racconta in maniera canonica, senza sconvolgimenti e senza strafalcioni, una storia popolata da apparizioni, sparizioni, rituali e stigma che in qualche modo simboleggiano l’ereditarietà di un trauma a conduzione familiare. La tavolozza è buia e nebbiosa, proprio come la torbiera in cui si svolgono le vicende, la recitazione è realistica, dimessa ma non banale. Alcune trovate sceniche risollevano il film dalla mancanza di mordente, mentre il finale, pur non dispiacendo affatto, rimane ben ancorato alla comfort zone delle cose già viste (e previste).
Si era già parlato di questi ultimi due film in occasione di Oltre lo specchio film festival 2022.
MENZIONI SPECIALI
Per tutti quei film che, pur non rientrando tra i migliori, sono stati visti con interesse e magari anche apprezzati. Perché, incredibile ma vero, “TOP” e “FLOP” non sono gli unici due possibili metri di giudizio di una pellicola.
THE APOLOGY [Stati Uniti – regia di Alison Locke]
Un film d’ambientazione natalizia, interamente girato all’interno di una casa durante una tormenta di neve al giorno della vigilia. In casa c’è la foto, e il ricordo, di Sally Hagen, una teenager scomparsa nel nulla più di vent’anni fa. Poi c’è sua madre Darlene, un’ex alcolista, che non ha mai smesso di cercarla. A sorpresa arriva Jack, suo ex-cognato, rimasto fermo per la tormenta ma in realtà intenzionato a trascorrere la notte in quella casa per rivelare a Darlene dove sia sua figlia. Una dolorosa ma necessaria riflessione sulla violenza di genere, sulla forza del rapporto madre-figlia in contrapposizione alla forza bruta dell’uomo violento.
BODIES BODIES BODIES [Stati Uniti – regia di Halina Reijn]
Gli slasher sono creature semplici e di poche pretese, un po’ come i loro protagonisti: è sufficiente che le uccisioni abbiano un minimo di creatività, tutto il resto può essere materiale di riciclo virtuosamente riutilizzato. Questa commedia horror non dispiace, anzi sorprende e diverte, riesumando il topos dei dieci piccoli indiani e traducendolo in appetibile teen slasher con protagonisti degli annoiati riccastri della generazione Z rinchiusi in una grande villa per festeggiare l’arrivo di un uragano.
MASTER [Stati Uniti – regia di Mariama Diallo]
Un pacato horror militante, che racconta l’orrore del razzismo e il razzismo dell’orrore in un vorticoso incubo allegorico fatto di micro-aggressioni e traumi generazionali: c’è uno spaventoso elegante in una stanza, sotto le cui pareti brulica la più sordida marcescenza di matrice bianco-borghese, e l’unica non fingere di non vederlo è una donna afroamericana con un ruolo di potere in un prestigioso college in cui succede qualcosa di sinistro. Con l’avanzare della narrazione, però, diminuisce il mordente.
LANDLOCKED [Stati Uniti – regia di Paul Owens]
Un approccio innovativo, intimista, commovente e molto riuscito al found footage, che trae il massimo da un piccolo budget e utilizzando i reali filmati di famiglia del regista come spunto narrativo e la sua vera casa dell’infanzia come set di una storia di ricordi e fantasmi impressi su vhs.
CRACKED [Thailandia, regia di Surapong Ploensang]
Godibilissimo horror paranormale che fa il suo dovere, regalando un flusso più o meno costante di tensione, jumpscare, apparizioni misteriose e sparizioni ancora più misteriose, insieme al dipanarsi di un plot che parte da una piccolissima crepa all’interno di un vecchio dipinto inquietante.
CERDITA (aka PIGGY) [Spagna – regia di Carlota Pereda]
Istruttiva parabola sulla grassofobia, sulla disumanizzazione dell’altro e sulla sfortuna, che racconta la lunga sequela di disavventure che accorrono a un’adolescente grassa e pesantemente bullizzata dalle coetanee divenuta, suo malgrado, testimone oculare e complice del loro rapimento da parte di un misterioso serial killer che sembra volerla difendere… Un divertente bagno di sangue che trasuda caldo e sporcizia come il luogo in cui è ambientato.
THOSE WHO WALK AWAY [Stati Uniti – regia di Robert Rippberger]
Ambizioso film d’esordio e a basso budget integralmente girato in piano sequenza, scritto recitato decentemente. Siamo nel territorio (poco) rassicurante e familiare del boogeyman come metafora del trauma e dell’infausta spaventosità delle case abbandonate. Le vibes, con le dovute proporzioni, sono un po’ da It Follows, e la citazione di Twin Peaks è molto gradita.
RAZZENNEST [Austria – regia di Johannes Grenzfurthner]
Curioso monstrum sperimentale fatto di immagini vagamente evocative prive del loro sonoro, affiancate a suoni e dialoghi che di queste immagini dovrebbero esserne il commentario, ma che poi si trasformano in una terrificante esperienza di possessione collettiva.
Il confine tra il divertimento e la vuota pretenziosità è qui davvero molto labile ma qualcosa in questo film si salva, per chi ha la pazienza (o il piglio masochistico) di sorbirselo fino in fondo.
Infine, una menzione speciale per quei titoli che pur non appartenendo al genere horror in senso stretto, ne sono in qualche modo affini, rivelandosi piacevoli sorprese fuori genere – a patto di non aspettarsi visioni orrorifiche:
The eternal daughter di Joanna Hogg, un film dall’atmosfera pesantemente gotica popolato dai fantasmi della ragione, una bellissima riflessione sul lutto e sull’identità.
The wonder di Sebastián Lelio, un racconto ambientato nelle Midlands irlandesi di fine ottocento su fanatismo religioso e disperata fame d’amore.
Bones and all di Luca Guadagnino, toccante storia d’amore on the road, tra cannibalismo e sopravvivenza ai traumi.
Flux Gourmet di Peter Strickland, uno strambo esercizio di stile che il regista britannico può permettersi di sostenere, giocando ironicamente con le feroci contraddizioni della società contemporanea, indigesta al punto da generare riflussi e altri seri disordini gastrointestinali.
Lamb di Valdimar Jóhannsson, cupa e struggente favola surreale sul lutto con protagonista un’indimenticabile ibridazione di un’agnellina dal corpo umano. Approvato anche da Béla Tarr.
PREMIO “NO, GRAZIE”
Ecco in chiusura i titoli delle visioni meno gradite e interessanti del 2022, che sarà anche stata un’ottima annata, ma statisticamente non poteva che rifilare anche qualche delusione qua e là, soprattutto tra i film che hanno avuto il privilegio immeritato di un passaggio in sala o su blasonate piattaforme streaming:
Monstrous di Chris Sivertson che, esattamente come il suo titolo, è davvero mostruoso, ma nel peggiore dei sensi: un mischione blasfemo e mal fatto di cose già viste, cose noiose e cose fatte male;
Prey for the devil di Daniel Stamm che, in quanto ennesimo film sulla possessione demoniaca privo di ambizioni, sputa fuori una raffica di trovate ispirate alla più totale mancanza di creatività;
Old People di Andy Fetscher, che butta in caciara il discorso dell’horror geriatrico con i suoi zombie ottuagenari scappati dalla casa riposo e con una messa in scena all’insegna del cringe;
The Menù di Mark Mylod, un noioso polpettone sull’ossessione culinaria che si finge piatto stellato, ma non lo è.
Umma di Iris K. Shim, che detiene il titolo di film di fantasmi meno memorabile degli ultimi vent’anni;
Glorious di Rebekah McKendry che promette molto – un mostro lovecraftiano intrappollato in un gabinetto pubblico utilizza un uomo per cavarsi dagli impicci – e poi però delude moltissimo, gettando tutte alle ortiche.
The Long Night/The Coven di Rich Ragsdale, un’accozzaglia di cliché degli home invasion e dei film sulle sette, completamente privo di una trama e di uno scopo.
Allegoria di Spider One, un horror antologico scritto e diretto dalla medesima persona, sulla profonda crisi del processo artistico e creativo, ben visibile già a partire dal film stesso. Peccato.
Night’s End di Jennifer Reeder, uno dei tanti film girato durante la quarantena che avrebbe dovuto essere rimandato forse a tempi migliori, con una buona idea di partenza – quella della consulenza demonologica online e dell’esorcismo via Zoom – invalidata da interpretazioni decisamente dilettantistiche. Peccato anche qua.
Una stellina in fronte ai pochissimi coraggiosi giunti fin qui con la lettura.
Buon 2023.