Probabilmente tutti sanno che un titolo troppo lungo come “Seven in Heaven, il teen drama horror in salsa Sci-Fi che quasi nessuno ha visto ” non giova alla fruizione del post, o all’indicizzazione, ma a volte bisogna compiere scelte difficili e fare pace con l’idea che per parlare di questo film, non si possa non introdurlo come un teen drama horror in salsa Sci-Fi che quasi nessuno ha visto, perché così è.
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[RECENSIONE] TRAUMA – STRAZIAMI MA DI TORTURE SAZIAMI
Violenza estrema? Ce l’ho.
Stupro e incesto? Anche.
Tortura e cannibalismo? Presenti.
Contestualizzazione storica e critica sociale? Eccole.
Disintegrazione del concetto di famiglia? Subito.
Si potranno pur muovere alcune critiche a Trauma, il nuovo film del giovane cileno Lucio A. Rojas, ma non si potrà certo dire che non sia un horror completo. Completo di tutte le nefandezze che la mente umana possa concepire, una specie di inventario oltraggioso che prende spunto dagli stessi metodi di tortura che rappresenta, andando a colpire lo spettatore/vittima in maniera graduale ma continua, regalando strategici momenti di quiete tra una scarica di violenza e l’altra, costringendo infine al cedimento psicologico, alla resa, al liberatorio supplizio finale.
Quello messo in scena nel film, che si apre con un prologo ambientato a Santiago nel 1978, durante il regime di Pinochet, è il trauma personale di una vittima che si trasforma in carnefice, ma anche quello collettivo di un’intera nazione e dei crimini di cui si è macchiata: il giovane Juan viene drogato e costretto ad avere un rapporto con la sua stessa madre, imprigionata e torturata perché sospettata di tradimento e infine uccisa con un colpo di pistola alla testa nel bel mezzo dell’atto, che prosegue sotto lo sguardo compiaciuto di colui che ha premuto il grilletto: suo marito, ovvero il padre del ragazzo. La violenza estrema dell’incipit non lascia dubbi su quale sia la vocazione della pellicola, che spostandosi avanti e indietro nel tempo, da ieri a oggi, racconta la nascita di un mostro la cui mente è stata spezzata nel più crudele dei modi e che da adulto si limita a ripetere le atrocità viste e subite con chiunque gli capiti a tiro. Juan ha all’attivo una sorella-moglie che tiene incatenata al letto, un figlio psicopatico nato dalla loro unione, il grande capannone nel quale avvennero i fatti del prologo, perfetta location per gli orrori commessi, un numero imprecisato di vittime incatenate, torturate, smembrate lentamente per essere mangiate, e il benestare dei vicini del piccolo villaggio rurale in cui vive che lo lasciano fare, a patto di non venire attaccati. A questo bizzarro quadretto familiare se ne contrappone uno tutto al femminile formato da due sorelle, Camila e Andrea, la loro cugina minore e la fidanzata di Camila, in gita da quelle parti per un weekend insieme: a poche ore dal loro arrivo nello sperduto cottage di campagna da qualche parte fuori Santiago, il loro lesbo party si trasforma in una mattanza di stupri e percosse a opera di Juan e del figlio demente, dando inizio a una specie di guerra dei sessi, ma soprattutto a una lunga lotta per la salvezza, ma anche per la vendetta, tra le due fazioni contrapposte. Chi ne uscirà vivo?
Trauma è un film crudo, esplicito e violento che poco o nulla lascia di sottinteso o incompiuto, per lo meno a livello puramente visivo e sebbene porti addosso alcuni vistosi assottigliamenti della sceneggiatura che danno vita a scene poco credibili. I temi trattati vanno però al di là del gusto per l’estremo e ci parlano di fatti realmente accaduti, di questioni ampiamente diffuse, di ciò che insomma esiste, che ci piaccia o no, e col quale dobbiamo fare i conti: la famiglia del killer è un nucleo malato e disfunzionale, nel quale chi più dovrebbe amarti ti tradisce, ti distrugge e ti insegna a perpetrare la violenza. La famiglia rappresenta in qualche modo la patria, il Cile in questo caso, e la storia, che con i suoi corsi e ricorsi vanifica ogni tentativo di affrancamento dal passato. Con l’inevitabile e conseguente interrogativo su quale possa essere l’origine del male: è frutto dell’esperienza, di un trauma appunto, oppure è una tara ereditaria profondamente radicata in alcuni individui? Buon Selvaggio o Homo homini lupus? Sarà vero che dalla violenza nasce violenza? La risposta, tremendamente ambigua, la fornisce il finale del film. Che rappresenta il punto più alto del cinema di Rojas – ancora abbastanza giovane per permettersi certe imperfezioni, ma cresciuto e miglioratosi a colpo d’occhio – e che sciorina temi e attori a lui cari già dai precedenti Sendero e Perfidia. A proposito di precedenti, questa volta illustri: sembra impossibile non nominare A Serbian film – la pellicola estrema del 2010 che, contrariamente alla maggior parte dei film del genere, più di nicchia e squattrinati, ha avuto un grande successo di pubblico – quanto meno per alcune evidenti affinità: il passato violento di una nazione, le scene raccapriccianti e socialmente inaccettabili di violenza, la famiglia polverizzata. E a quel punto, perché non tirare in ballo anche Salò di Pasolini?
Ma Trauma di Rojas, anziché sedere sulle spalle dei giganti, cammina bene sulle proprie gambe, lungo un sentiero fatto di sangue e spappolamenti ma anche di ottime idee ben realizzate.
[RECENSIONE] THE HOUSE THAT JACK BUILT: BENVENUTI IN CASA VON TRIER
Disclaimer: questo post contiene spoiler rilevanti sulla trama.
L’origine dell’arte, il male, il cinema, l’egotismo, i discorsi deliranti, la narrazione episodica e didascalica: c’è davvero tanto di Von Trier nel nuovo film di Von Trier, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Il controverso regista danese ha partorito un horror che è una proiezione narcisistica e mostruosa di sé e del proprio lavoro, una sorta di casa ben strutturata su più piani e arredata di tutto punto con un gusto baroccheggiante per la saturazione e l’abbondanza.
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SUSPIRI – Un elenco (s)ragionato di opinioni approssimative su Suspiria
Di Suspiria, il remake-non-remake di Luca Guadagnino, s’è parlato tantissimo, forse troppo ma mai abbastanza. L’abnorme mole di attenzione mediatica riservata a questo film già dallo scorso anno ha generato un nutrito coacervo di opinioni superficiali e tagliate con l’accetta, che ha inglobato sia il Suspiria originale di Dario Argento, sia il Suspiria di Guadagnino, alla disperata ricerca di una presa di posizione in termini assoluti.
Qui di seguito, riportate in forma rigorosamente anonima, alcuni dei pareri esposti – a caldo e a freddo – da critici, blogger, spettatori, avventori di passaggio e da chiunque si sia sentito in dovere di condividere le proprie idee per entrare nel merito del dibattito cinematografico:
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«Suspiria di Dario Argento fa cacare».
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«Suspiria di Guadagnino fa cacare».
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«Suspiria avrà fatto paura negli anni Settanta, ma oggi non è più credibile».
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«Suspiria di Guadagnino non fa paura».
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«Guadagnino non nasce come regista di horror, quindi non può essere in grado di girare un horror».
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«Nel nuovo Suspiria c’è decisamente troppa, troppa CGI»
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«Se avessi voluto guardare un film fassbinderiano, avrei guardato un film di Fassbinder».
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«Non puoi fare un remake di Suspiria in cui di Suspiria non c’è davvero proprio nulla e intitolarlo Suspiria…»
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«Il titolo Suspiria serve solo a farsi pubblicità»
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«DUEOREMMEZZA di film, ma siamo pazzi?»
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«Suspiria di Guadagnino è solo un’altra espressione diretta di quell’horror d’autore intellettualoide, cerebrale e astratto che va tanto di moda oggi».
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«Ma che c’entra la storia?»
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«Ma che c’entra il muro di Berlino?»
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«Ma che c’entra l’autunno del ’77?»
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«Ma che c’entra il femminismo?»
Qual è il commento assolutista che preferite? Quali altri aggiungereste a questa lista? Fatecelo sapere nei commenti. Prego astenersi dal fornire opinioni equilibrate e ragionevoli che contemplino al tempo stesso pregi e difetti di una pellicola o aperte all’idea che possano piacere entrambi i Suspiria, per ragioni diverse e a netto di impossibili confronti stilistici.
[SPECIALE DUEMILADICIHORROR] I FILM HORROR DEL 2018 DA NON LASCIARSI SFUGGIRE
Smaltiti i postumi del 2018 ma non ancora i tanti film che ci ha regalato, è giunto il momento di trarre le somme con una selezione dei migliori film horror dell'anno appena trascorso, come sempre alla ricerca di pellicole indipendenti o ingiustamente sottovalutate. Per questo motivo, non mi soffermerò più di tanto a parlare di produzioni mainstream, seppur valide, delle quali si è già discusso tanto, sia qui e altrove, come ad esempio l'ottimo Unsane di Steven Soderberg, il soddisfacente Ghostland di Pascal Laugier, l'amato/odiato e poco compreso Hereditary di Ari Aster o ancora Climax, che è riuscito a farmi rivalutare Gaspar Noe dopo "Love". Ecco quindi, in ordine sparso, un elenco ragionato e impopolare degli horror meritevoli di grazia nel 2018 secondo Horror Vacui:Continua a leggere [SPECIALE DUEMILADICIHORROR] I FILM HORROR DEL 2018 DA NON LASCIARSI SFUGGIRE
[recensionE] Housewife: incubi e citazioni, citazioni e incubi
I traumi infantili sono quella cosa che quando ce li hai, ti rimangono addosso per sempre come le cicatrici, quando non li hai significa che sono stati rimossi e seppelliti nella parte più buia e nascosta di te, e torneranno a galla quando meno te lo aspetti. La protagonista di “Housewife” – secondo lungometraggio del regista turco Can Evrenol al suo primo lavoro in inglese con un cast internazionale – ha traumi talmente grossi da portarsene ancora addosso alcuni e da averne dovuti rimuovere altri. Dopo aver visto la madre squilibrata uccidere la sorella, sgozzare il padre e inveire contro invisibili presenze chiamate “Visitatori“, Holly si trova da adulta a dover fare i conti con una costante sensazione di paura, di smarrimento e di solitudine, che nemmeno una vita agiata e un rapporto apparentemente sereno col marito riescono a scacciare via. Si rivela invece provvidenziale per lei partecipare al meeting di una psico-setta, Umbrella of Love and Mind, una specie di Scientology dei viaggi astrali e del controllo dei sogni, dove viene casualmente indicata come “la prescelta” dal carismatico leader ed esperto onironauta Bruce. Che è anche un gran figo.
Continua a leggere [recensionE] Housewife: incubi e citazioni, citazioni e incubi[Anteprima] Halloween è morto, lunga vita ad Halloween (ma anche no)
Come i lettori più affezionati sapranno, questo blog si occupa raramente di horror del circuito mainstream, di film della grande e ricca distribuzione, di remake, sequel, prequel e di altre creature filmiche di natura derivativa. Per tante e valide ragioni, prima tra cui dare spazio alle alle idee originali e alle pellicole indipendenti. Eppure quella del tributo ai successi del passato è una delle grandi ossessioni dell’horror contemporaneo nonché uno dei leitmotiv cinematografici di un 2018 segnato, folgorato e trafitto da un gran numero di rifacimenti, seguiti, nuovi capitoli. E se l’horror in questione è Halloween, annunciato in maniera roboante e seguito da un’esplosione contagiosa irrefrenabile di puro hype, diretto da David Gordon Green, prodotto dalla Blumhouse, interpretato da Jamie Lee Curtis e approvato dal maestro Carpenter in persona, e se si tratta di un Halloween che ignora tutta la progenie successiva al capolavoro originario del 1978, di un titolo senza numeri né sottotitoli, senza vendette né prologhi, e se si ha l’occasione di vederlo in anteprima, perché mai rinunciare?
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[Recensione] Climax: la paura vien danzando
Si possono dire tante cose di Gaspar Noé, tranne che non sia un tipo determinato e di parola: ciascun titolo dei film del regista argentino contiene una promessa o un’anticipazione su quel che accadrà all’interno della pellicola e il suo ultimo Climax – proiettato in anteprima al Milano Film Festival 2018 – non è da meno. Già a partire dal titolo, che riconduce all’idea di aumento progressivo inesorabile, e già a partire dai primi minuti, subito dopo un autoreferenziale salto di montaggio con mostra della scena finale seguita dai titoli di coda e ritorno al principio del film, un po’ a la Irréversible, per intenderci. Siamo al cospetto di un horror in cui accadranno fatti terribili e questo, Noé, vuole che sia ben chiaro sin dal principio.
La sinossi di Climax è piuttosto semplice: un gruppo di ballerini, appena selezionati a un casting, festeggiano insieme l’inizio di un nuovo grandioso progetto (del quale non sapremo né vedremo praticamente nulla) bevendo sangria e ballando in free style, finché non si accorgono di aver assunto una grossa quantità di droga, occultata nel vino. Gli effetti inaspettati della sostanza sconvolgono il gruppo, che cede alla paranoia e agli istinti più bassi in un crescendo di terrore e violenza. Molta violenza. Dal pestaggio collettivo al suicidio, dall’aborto a suon di calci alla morte per fulminazione, dallo stupro all’incesto, dalla combustione all’assideramento: quello di Climax sembra un budello infernale in cui ognuno va incontro a un terribile destino, senza sapere perché, a passo di danza, in un non-luogo in cui i corridoi conducono al terrore e gli atti estremi hanno come sottofondo un’ottima colonna sonora.
Proprio durante le scene iniziali, Noé fornisce indizi ben precisi allo spettatore su ciò che accadrà a breve e sul tipo di film al quale sta per assistere: persino – ma è un dettaglio che si può intuire più facilmente a posteriori e che, secondo il regista, strizzerebbe l’occhio alla tradizione del giallo all’italiana – chi sia l’effettivo colpevole della somministrazione occulta di sostanze stupefacenti nella sangria incriminata. Ma sono i tanti titoli di film, disposti in maniera assolutamente non casuale a fianco di un vecchio televisore che trasmette le registrazioni dei provini, a rivelare che Climax sarà, innanzitutto, un film horror.
A far bella mostra di sé, Suspiria di Dario Argento nel suo annus mirabilis: un collegamento ideale quasi obbligatorio, almeno per l’ambientazione, per la presenza di danzatori in una scuola, di nottate infernali e di colori intensi e vibranti. Poi c’è Possession di Zulawski, esplicitamente citato nella famosa scena di invasamento che viene riproposta in maniera piuttosto fedele nei movimenti convulsi e nelle urla dissociate di una ballerina in preda al delirio lisergico. E poi ancora c’è Dawn of the Dead di Romero, perché i protagonisti sotto effetto della droga diverranno piano piano simili a zombi privi di coscienza, dai movimenti automatizzati. E come non menzionare Angst di Gerald Kargl e Salò di Pasolini per l’escalation di violenza, bestialità e sadismo che ritroviamo (privi però di qualsiasi sottotesto socio-politico) anche in Climax?
Citazionismo a parte, Noe ci regala un’ora e trentacinque minuti di intenso e ammaliante spettacolo visuale, a partire dalla lunga e sensualissima scena del ballo sulle note di “Supernature” di Cerrone (prego), un’orgia danzante dal retrogusto pornografico perfettamente studiata e coreografata, le cui mosse vengono poi però ripetute in maniera sempre più parossistica, incontrollata e deforme con l’aumentare della paranoia e del degenero. La regia è solida e sicura di sé e il controllo dei movimenti della macchina da presa, delle luci e dei colori, praticamente un marchio di fabbrica di Noé, fanno da contrappunto a una recitazione volutamente minimale, basata sull’improvvisazione e su una sceneggiatura ridotta all’osso, come a voler dire che l’energia sprigionata dal dolore, dalla rabbia e dalla paura quando si perde il controllo è incontenibile, proprio come i movimenti di chi ne è attraversato. Sfidando sé stesso nel realizzare un film in pochi mesi che fosse al contempo un horror con velleità artistiche, una provocazione, una buona pellicola e un prodotto adatto a Cannes, Gaspar Noé con Climax ha mantenuto la promessa su tutta la linea, senza deludere (quasi) nessuno. Chapeau.
[Recensione] Incident in a Ghostland: fenomenologia del plot twist laugeriano
In principio era Martyrs, anzi no: quando il registra francese Pascal Laugier regalò al cinema horror la sua pellicola più famosa e controversa non era certo al suo esordio, né quella poteva fregiarsi del titolo di prima opera legata alla corrente del nuovo estremismo francese. Martyrs è stato però il suo film più famoso e memorabile, asceso per direttissima all’Olimpo dei film-che-forse-non-avete-ancora-visto-ma-che-dovreste-assolutamente-recuperare grazie a quel delicato insieme di dolore e paura attraversato da lontani echi di torture porn ed exploitation ammantati da un’aura metafisica.
Ma il punto di partenza per parlare di Laugier e del suo ultimo film, Incident in a Ghostland non dev’essere l’impossibile confronto con Martyrs o la conta delle differenze tra pellicole, quanto l’individuazione dei denominatori comuni di ogni suo lavoro: la sofferenza umana declinata con pazienza e dedizione in tutti i modi possibili e l’irresistibile richiamo del plot twist.
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[Recensione] Hagazussa, la strega della porta accanto
Se è vero che le parole possiedono un potere evocativo intrinseco, un film intitolato Hagazussa, termine dall’etimo complesso e controverso che affonda le sue radici nell’antico germanico e che indica approssimativamente la strega e l’incantesimo, trasmette da subito l’atmosfera giusta. E l’idea che si tratti di un film d’esordio, anzi del lavoro di fine corso di uno studente di cinema, lascia a bocca aperta.
La vicenda di Hagazussa – A Heathen’s Curse è ambientata nel XVesimo secolo, in un villaggio arroccato sulle Alpi austriache i cui abitanti si cibano in egual misura di latte appena munto e superstizioni grossolane. Qui, la presenza di una donna sola, con una bimba nata da padre ignoto e ancora legata a riti e tradizioni pagane non è certo vista di buon occhio. Martha e la piccola Albrun ci vengono presentate così: vecchia, perversa e moribonda la prima, giovanissima, ingenua e devota alla madre la seconda, minacciate entrambe dai vicini del villaggio travestiti da Klausen, che con indosso costumi dalle terrificanti sembianze caprine, muniti di torce e campanacci, non si peritano di cacciare via gli spiriti maligni nel cuore della notte. Il folklore nordico e certe antiche tradizioni pagane, riesumati dai ricordi d’infanzia del regista, emergono quindi in filigrana e fanno da accurato background storico-culturale della pellicola. (Chi volesse approfondire il discorso su Perchta e i dodici giorni, cui si fa cenno in Hagazussa, può consultare il sempre esaustivo Axis Mundi).
Con la morte della madre termina l’infanzia di Albrun, che troviamo in un salto temporale cresciuta, madre di una bimba nata da padre ignoto, sola al mondo e in silenziosa quiete a occuparsi di caprette e altre amene attività tipiche della vita di montagna. Gli abitanti del villaggio continuano a prenderla di mira additandola come strega, mentre una giovane donna decide di avvicinarla per conquistarne la fiducia e smascherarne la vera natura.
Albrun trascorre le proprie giornate in totale isolamento e poco o nulla suggerisce un suo effettivo rapporto con la stregoneria; solo il teschio della madre, decorato ed esposto a mo’ di altarino sacro, è il tramite per una dimensione altra di cui però la protagonista non sembra curarsi troppo. Almeno finché il suo precario equilibrio psichico non viene sconvolto dalla violenza dei vicini, che innescano in lei un meccanismo distruttivo e una vera e propria discesa negli abissi della mente e dell’annichilimento umano.
Ciò che fa Albrun, suo malgrado e in condizioni di scarsa lucidità, è odioso e imperdonabile, ma è in qualche modo verosimile, realistico, proprio ciò che ci si aspetterebbe da una strega e che si sentiva raccontare nelle vecchie storie tramandate dai bisnonni. La donna cede la propria anima e si vendica, diffondendo morte e malattia nel villaggio, perdendo ogni cosa e divenendo tutt’uno con i boschi colmi di presenze oscure e con i paesaggi alpini che assumono tinte cupe e angoscianti.
Quello realizzato dall’austriaco Lukas Feigelfeld è un horror- folk superbo, storicamente accurato e realistico ma allo stesso tempo allucinato e psicologico, che getta uno sguardo sulla sofferenza femminile legata alla maternità ma anche su antiche tradizioni dal fascino atavico. Si tratta di un film estremamente lento, quasi totalmente privo di dialoghi, minimalista eppure completo. Una pellicola che cammina sulle proprie gambe e che si appoggia a una fotografia austera, studiata con perfezione quasi sospetta e a un impianto sonoro che mesmerizza, con tutta la cupezza delle musiche di MMMD, (duo greco specializzato in un genere deliziosamente etichettato come “chamber doom”). Un unicum se vogliamo, difficile da seguire e digerire per la lentezza con cui prosegue la narrazione ridotta all’osso, ma che trae ispirazione da altri precedenti illustri cui offre un tributo visuale: al di là dell’immediato ma semplicistico accostamento a The VVitch di Eggers per l’affinità tematica, non si può non pensare a Tarkovskij, Von Trier, Żuławski chiaramente evocati in molte scene e, scavando un po’ più a fondo, a quel piccolo capolavoro del cinema muto che è Häxan di Benjamin Christensen.