Esiste un adagio che recita: less is more. L’idea dell’essenziale che si rivela bastante e che aiuta a liberarsi del superfluo, la cui gestione è spesso complicata, funziona perfettamente nel cupo e claustrofobico (ma anche agorafobico) It comes at night dello statunitense Trey Edward Shults.
In un gioco di inconciliabili dicotomie, tutto ciò che si trova all’esterno della casa, chiunque non faccia parte della famiglia e qualsiasi eccezione alle regole vengono contrapposti alla rassicurante stasi all’interno delle mura domestiche, alla fiducia incondizionata verso i propri cari, al rispetto dei crudeli dictat imposti in nome della salvezza.
Quando un horror riesce a disorientare, stupire e allo stesso tempo spaventare, significa che è un buon horror. Poco importa che non sia granché famoso o che sia stato realizzato con un budget incredibilmente basso. Lake Mungo, una produzione indipendente del 2008 diretta da Joel Anderson,maneggia con maestria alcuni meccanismi stantii dell’horror, regalando un amalgama intelligente di found footage e mockumentary.
Questa recensione contiene spoiler rilevanti sulla trama. Se non hai ancora visto Cat Sick Blues, consiglio di rimediare subito, prima di tornare a leggere questo post.
Essere scelti da un gatto – perché sì, è lui a scegliere voi e se pensate il contrario probabilmente avete dei cani – è un privilegio estremamente comune (i gatti sono tanti e quella ciotola non si riempirà certo da sola) ma non per questo di scarso valore. Quando un gatto entra nella vostra vita, cioè nella vostra casa, non vorrà uscirne più. O meglio, vorrà uscirne per poi rientrare, per questo è bene che la porta resti sempre aperta.
Ecco, in Cat Sick Blues (2015) succede una cosa del genere, ma con un serial killer.
Per qualche ragione, esiste una nutrita filmografia horror sui nazisti, al di là dell’ambito storico o documentaristico. Ci sono centinaia di film che propongono nazi in tutte le salse: possono essere zombie o feroci cannibali, possono nascondersi al centro della Terra o in una stazione segreta della Luna, sono spesso ridicoli e i loro malefici piani di conquista del pianeta destinati a fallire miseramente.
Subito dopo aver guardato The Greasy Strangler mi sono domandata se il fatto che la maggior parte dei film che celebrano il disgusto in tutte sue forme siano anche dei piccoli capolavori possa essere considerato una coincidenza. Probabilmente no, perché riuscire a raccontare ciò di cui non si ha il coraggio nemmeno di parlare, stuzzicando però quel lato sopito e censurato fatto di fantasie sporche e malate che tutti abbiamo, non è impresa facile.
Ogni volta che assistete a un concerto, vi chiedete mai cosa ci sia dietro, come funzioni il meccanismo che porta un determinato gruppo a suonare in un determinato locale? Molte band si affidano alle agenzie di booking, che fanno da intermediari tra i musicisti e i gestori dei locali e si smazzano tutte le incombenze logistiche legate al tour, dall’accordo sui pagamenti alla ricerca di vitto e alloggio, dalle indicazioni per i tecnici del suono alla programmazione delle date. Altre invece optano per il più economico fai-da-te, un po’ come gli Ain’t rights, il gruppo punk squattrinato protagonista di Green Room, pellicola del 2015 diretta dallo statunitense Jeremy Saulnier.
Si dice le disgrazie non arrivino mai da sole e si snodino sinuose lungo il corso accidentato delle nostre vite balorde seguendo il principio dell’accumulo, o del “chiù simm e chiù belli parimm”. Perché se essere una ragazza madre cocainomane vestita in abiti animalier non coordinati (brrr…) in fuga da un’epidemia zombie, costretta a vagare a piedi per giorni nel deserto inseguita da un morto che cammina, sola, disidratata e in costante pericolo non fosse abbastanza, a peggiorare il tutto, come da tradizione, arriva la ciliegina sulla torta: il ciclo mestruale.
Siamo nel 2017, il razzismo è vivo e vegeto e cammina in mezzo a noi. Al di là dei tanti riferimenti al cinema di genere, al di là delle geniali incursioni blandamente comiche sparpagliate nella giusta misura, al di là dell’azzeccato e fortunato esordio registico di Jordan Peele, l’essenza di Get Out sta tutta in quel potente messaggio di fondo. L’odio razziale negli Stati Uniti non ha mai cessato di esistere, ha solo – ehm – cambiato pelle.
La gravidanza è una gran gioia e una benedizione dal cielo il più delle volte, ma può anche rivelarsi un’esperienza terrificante. Specialmente se è indesiderata, accompagnata da strane visioni e da un progresso insolitamente rapido della gestazione.
Io sì, parecchia. Per questa ragione cerco di riempire le mie ore vuote da insonne cronica con tonnellate di film. Horror, e non solo. Un’idea iniziale per il nome di questo blog era “A girl watches movies alone at night”, un omaggio al bellissimo film di Ana Lily Amirpour e insieme una dichiarazione d’intenti. Idea poi scartata per l’eccessiva lunghezza del titolo e per non fare torto a tutti gli altri film e alla relativa smania citazionista da essi derivante.
Qui si parlerà soprattutto di cinema horror indipendente, di film horror rari, poco conosciuti e di recente uscita. Ci sarà spazio anche per alcune pellicole del passato, senza però la pretesa di creare un archivio completo sugli horror classici più famosi. Troverete liste ed elenchi a carattere tematico e prossimamente anche notizie dai festival horror in giro per il mondo. Con minore frequenza invece si parlerà di franchise horror, pellicole mainstream e grandi produzioni.