Quest’anno il Far East Film Festival – il festival del cinema asiatico che dal 1999 porta a Udine una vasta selezione di lungometraggi da paesi come Giappone, Corea, Cina, Thailandia – si è tenuto in rete, dal 26 giugno al 4 luglio, offrendo la possibilità di acquistare un pass virtuale e accedere alle pellicole in streaming, attraverso la piattaforma di MyMovies. Tra i titoli in concorso, cinque gli horror proiettati, nessuno dei quali ha dimostrato un potenziale d’impatto tale da tenere incollati allo schermo (del pc). Quella che segue è una recensione di tre dei cinque titoli in catalogo.
IMPETIGORE (Perempuan Tanah Jahanam)
di Joko Anwar
Una giovane donna, allertata dal terrificante incontro con un aggressore misterioso, fa ritorno nel remoto villaggio nel quale è nata, alla ricerca di un passato del quale non ha alcuna memoria, mentre tra inquietanti apparizioni in una villa abbandonata e ambigui scambi con gli abitanti del luogo si dipana una progressiva indagine sul passato di quel luogo e della sua famiglia. Il regista indonesiano, autore dell’ottimo remake Satan’s Slaves, gira una pellicola più semplice ed essenziale, nel solco dell’horror folk ma sempre incentrata sul tema della maledizione familiare.
Impetigore regala una più che soddisfacente esecuzione tecnica, una fotografia calda e priva di sbavature, una buona percentuale di sangue e violenza e con la valorizzazione scenica di elementi fortemente caratteristici, come la foresta indonesiana o come le marionette del Wayang Kulit, il teatro delle ombre giavanese. Quel che il film non regala, invece, è una narrazione avvincente, oscillando in maniera brutale tra momenti di stasi pressoché totale e altri di eccessivo clamore, a scapito dell’armonia compositiva generale. Tra un tentativo di jumpscare e l’altro, l’atmosfera va diradandosi fino a sparire quasi del tutto, paradossalmente, nel grandioso finale a sorpresa.
SOUL (Roh)
di Emir Ezwan
Una donna e i suoi due figli trascorrono le loro semplici esistenze in una palafitta nascosta tra la fitta vegetazione, occupandosi della sussistenza quotidiana, le cui attività principali spaziano dal procacciarsi il cibo al raccogliere il carbone da rivendere nel villaggio più vicino. A sconvolgere le loro vite sarà l’incontro con una misteriosa bambina apparsa dal nulla, chiusa in un inquietante mutismo e foriera di un funesto quanto incomprensibile presagio. Ai tre non resterà altro che tentare di comprendere, prima che sia troppo tardi. Soul è un film i cui pregi e le intuizioni azzeccate si rivelano allo stesso tempo dei limiti: se a un budget evidentemente limitato corrisponde la sacrosanta idea di sfruttarlo nel modo più intelligente, dando un’impostazione minimale al film con una location – la meravigliosa foresta pluviale malese – ridotta all’osso e con un cast limitato a cinque/sei attori, delude la mancata valorizzazione di quei luoghi già dotati di un notevole potenziale ammaliante e degli attori, le cui interpretazioni creano vuoti anziché riempirli. Il risultato è un film più che lento: inamovibile.
DETENTION (Fanxiao)
di John Hsu
Quando negli anni Quaranta dello scorso secolo gli abitanti di Taiwan insorsero con proteste e manifestazioni anti-governative contro il Kuomintang (il partito nazionalista cinese, ma di stanza a Taiwan: è una storia complessa), ebbe inizio un lunghissimo periodo di repressioni sanguinarie, di applicazione della legge marziale, di soppressione della libertà di pensiero, destinato protrarsi fino al 1987, il cosiddetto Terrore Bianco. E proprio in questo contesto storico è ambientato Detention, un horror politico in piena regola, che arriva anche in un momento significativo, a più di un anno dalla ripresa delle proteste di Hong Kong.
Protagonisti della vicenda sono un gruppo di liceali e i loro insegnanti, sospettati di condurre attività eversive e quindi perseguitati, torturati e uccisi in quello che sembra un incubo stratificato su più livelli, all’interno del quale è facile perdersi e quasi impossibile svegliarsi. Ricorda molto Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro, questo Detention, sia per l’impronta fiabesca, sia per la struttura narrativa adottata. E nonostante l’importanza del messaggio veicolato e l’importanza di valorizzare un tipo di horror che si dimostra critico e immerso nel contesto politico-sociale in maniera più concreta e manifesta di quanto non facciano già metaforicamente – in maniera meno palese, dunque – tanti altri horror, l’impressione è quella di stare guardando un film per bambini, e nemmeno dei migliori.