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[SPECIALE FEFF 2020] IMPETIGORE, SOUL, DETENTION: GLI HORROR DEL FAR EAST FILM FESTIVAL

Quest’anno il Far East Film Festival – il festival del cinema asiatico che dal 1999 porta a Udine una vasta selezione di lungometraggi da paesi come Giappone, Corea, Cina, Thailandia – si è tenuto in rete, dal 26 giugno al 4 luglio, offrendo la possibilità di acquistare un pass virtuale e accedere alle pellicole in streaming, attraverso la piattaforma di MyMovies. Tra i titoli in concorso, cinque gli horror proiettati, nessuno dei quali ha dimostrato un potenziale d’impatto tale da tenere incollati allo schermo (del pc). Quella che segue è una recensione di tre dei cinque titoli in catalogo.



IMPETIGORE (Perempuan Tanah Jahanam)
di Joko Anwar

Una giovane donna, allertata dal terrificante incontro con un aggressore misterioso, fa ritorno nel remoto villaggio nel quale è nata, alla ricerca di un passato del quale non ha alcuna memoria, mentre tra inquietanti apparizioni in una villa abbandonata e ambigui scambi con gli abitanti del luogo si dipana una progressiva indagine sul passato di quel luogo e della sua famiglia. Il regista indonesiano, autore dell’ottimo remake Satan’s Slaves, gira una pellicola più semplice ed essenziale, nel solco dell’horror folk ma sempre incentrata sul tema della maledizione familiare.
Impetigore regala una più che soddisfacente esecuzione tecnica, una fotografia calda e priva di sbavature, una buona percentuale di sangue e violenza e con la valorizzazione scenica di elementi fortemente caratteristici, come la foresta indonesiana o come le marionette del Wayang Kulit, il teatro delle ombre giavanese. Quel che il film non regala, invece, è una narrazione avvincente, oscillando in maniera brutale tra momenti di stasi pressoché totale e altri di eccessivo clamore, a scapito dell’armonia compositiva generale. Tra un tentativo di jumpscare e l’altro, l’atmosfera va diradandosi fino a sparire quasi del tutto, paradossalmente, nel grandioso finale a sorpresa.

Il trailer di Impetigore



SOUL (Roh)
di Emir Ezwan

Una donna e i suoi due figli trascorrono le loro semplici esistenze in una palafitta nascosta tra la fitta vegetazione, occupandosi della sussistenza quotidiana, le cui attività principali spaziano dal procacciarsi il cibo al raccogliere il carbone da rivendere nel villaggio più vicino. A sconvolgere le loro vite sarà l’incontro con una misteriosa bambina apparsa dal nulla, chiusa in un inquietante mutismo e foriera di un funesto quanto incomprensibile presagio. Ai tre non resterà altro che tentare di comprendere, prima che sia troppo tardi. Soul è un film i cui pregi e le intuizioni azzeccate si rivelano allo stesso tempo dei limiti: se a un budget evidentemente limitato corrisponde la sacrosanta idea di sfruttarlo nel modo più intelligente, dando un’impostazione minimale al film con una location – la meravigliosa foresta pluviale malese – ridotta all’osso e con un cast limitato a cinque/sei attori, delude la mancata valorizzazione di quei luoghi già dotati di un notevole potenziale ammaliante e degli attori, le cui interpretazioni creano vuoti anziché riempirli. Il risultato è un film più che lento: inamovibile.

DETENTION (Fanxiao)
di John Hsu

Quando negli anni Quaranta dello scorso secolo gli abitanti di Taiwan insorsero con proteste e manifestazioni anti-governative contro il Kuomintang (il partito nazionalista cinese, ma di stanza a Taiwan: è una storia complessa), ebbe inizio un lunghissimo periodo di repressioni sanguinarie, di applicazione della legge marziale, di soppressione della libertà di pensiero, destinato protrarsi fino al 1987, il cosiddetto Terrore Bianco. E proprio in questo contesto storico è ambientato Detention, un horror politico in piena regola, che arriva anche in un momento significativo, a più di un anno dalla ripresa delle proteste di Hong Kong.
Protagonisti della vicenda sono un gruppo di liceali e i loro insegnanti, sospettati di condurre attività eversive e quindi perseguitati, torturati e uccisi in quello che sembra un incubo stratificato su più livelli, all’interno del quale è facile perdersi e quasi impossibile svegliarsi. Ricorda molto Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro, questo Detention, sia per l’impronta fiabesca, sia per la struttura narrativa adottata. E nonostante l’importanza del messaggio veicolato e l’importanza di valorizzare un tipo di horror che si dimostra critico e immerso nel contesto politico-sociale in maniera più concreta e manifesta di quanto non facciano già metaforicamente – in maniera meno palese, dunque – tanti altri horror, l’impressione è quella di stare guardando un film per bambini, e nemmeno dei migliori.

[RECENSIONE] MIDSOMMAR DI ARI ASTER

Di Midsommar – in uscita il 25 luglio in Italia con l’infelice sottotitolo “Il villaggio dei dannati” – si parla tantissimo già dallo scorso anno: perché dal regista Ari Aster, apparso dal nulla e subito promosso ad astro nascente del cinema horror col suo primo lungometraggio Hereditary, ci si aspetta grandi cose. E Midsommar non delude certo le aspettative, con una messa in scena pantagruelica all’insegna dell’eccesso e della grandiosità.

[Attenzione: contiene spoiler]

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[RECENSIONE] THE FIELD GUIDE TO EVIL: EVVIVA IL FOLKLORE, EVVIVA L’ORRORE

Ah, le antologie horror! Croce e delizia per gli amanti della brevitas, visioni frammentarie e sbrigative di suggestioni inespresse, invitanti antipasti di un più grande banchetto, sfida aperta al talento di registi e sceneggiatori nonché scelta filmica difficile nonostante le apparenze. Delle antologie horror ho già parlato all’interno di un listone dedicato (→ Paura a piccole dosi: le antologie horror che forse non conoscete già ), ma è doveroso aggiungere all’elenco quel piccolo capolavoro autoriale che è “The Field Guide to Evil“, raccolta di cortometraggi che attingono a piene mani del folklore nazionale di ognuno dei registi autori dei singoli frammenti.
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[Recensione] Hagazussa, la strega della porta accanto

Se è vero che le parole possiedono un potere evocativo intrinseco, un film intitolato Hagazussa,  termine dall’etimo complesso e controverso che affonda le sue radici nell’antico germanico e che indica approssimativamente la strega e l’incantesimo, trasmette da subito l’atmosfera giusta. E l’idea che si tratti di un film d’esordio, anzi del lavoro di fine corso di uno studente di cinema, lascia a bocca aperta.

La vicenda di Hagazussa – A Heathen’s Curse è ambientata nel XVesimo secolo, in un villaggio arroccato sulle Alpi austriache i cui abitanti si cibano in egual misura di latte appena munto e superstizioni grossolane. Qui, la presenza di una donna sola, con una bimba nata da padre ignoto e ancora legata a riti e tradizioni pagane non è certo vista di buon occhio. Martha e la piccola Albrun ci vengono presentate così: vecchia, perversa e moribonda la prima, giovanissima, ingenua e devota alla madre la seconda, minacciate entrambe dai vicini del villaggio travestiti da Klausen, che con indosso costumi dalle terrificanti sembianze caprine, muniti di torce e campanacci, non si peritano di cacciare via gli spiriti maligni nel cuore della notte. Il folklore nordico e certe antiche tradizioni pagane, riesumati dai ricordi d’infanzia del regista, emergono quindi in filigrana e fanno da accurato background storico-culturale della pellicola. (Chi volesse approfondire il discorso su Perchta e i dodici giorni, cui si fa cenno in Hagazussa, può consultare il sempre esaustivo Axis Mundi).

Con la morte della madre termina l’infanzia di Albrun, che troviamo in un salto temporale cresciuta, madre di una bimba nata da padre ignoto, sola al mondo e in silenziosa quiete a occuparsi di caprette e altre amene attività tipiche della vita di montagna. Gli abitanti del villaggio continuano a prenderla di mira additandola come strega, mentre una giovane donna decide di avvicinarla per conquistarne la fiducia e smascherarne la vera natura.

Albrun trascorre le proprie giornate in totale isolamento e poco o nulla suggerisce un suo effettivo rapporto con la stregoneria; solo il teschio della madre, decorato ed esposto a mo’ di altarino sacro, è il tramite per una dimensione altra di cui però la protagonista non sembra curarsi troppo. Almeno finché il suo precario equilibrio psichico non viene sconvolto dalla violenza dei vicini, che innescano in lei un meccanismo distruttivo e una vera e propria discesa negli abissi della mente e dell’annichilimento umano.

Ciò che fa Albrun, suo malgrado e in condizioni di scarsa lucidità, è odioso e imperdonabile, ma è in qualche modo verosimile, realistico, proprio ciò che ci si aspetterebbe da una strega e che si sentiva raccontare nelle vecchie storie tramandate dai bisnonni. La donna cede la propria anima e si vendica, diffondendo morte e malattia nel villaggio, perdendo ogni cosa e divenendo tutt’uno con i boschi colmi di presenze oscure e con i paesaggi alpini che assumono tinte cupe e angoscianti.

Quello realizzato dall’austriaco Lukas Feigelfeld è un horror- folk superbo, storicamente accurato e realistico ma allo stesso tempo allucinato e psicologico, che getta uno sguardo sulla sofferenza femminile legata alla maternità ma anche su antiche tradizioni dal fascino atavico. Si tratta di un film estremamente lento, quasi totalmente privo di dialoghi, minimalista eppure completo.  Una pellicola che cammina sulle proprie gambe e che si appoggia a una fotografia austera, studiata con perfezione quasi sospetta e a un impianto sonoro che mesmerizza, con tutta la cupezza delle musiche di MMMD, (duo greco specializzato in un genere deliziosamente etichettato come “chamber doom”). Un unicum se vogliamo, difficile da seguire e digerire per la lentezza con cui prosegue la narrazione ridotta all’osso, ma che trae ispirazione da altri precedenti illustri cui offre un tributo visuale: al di là dell’immediato ma semplicistico accostamento a The VVitch di Eggers per l’affinità tematica, non si può non pensare a Tarkovskij, Von Trier, Żuławski chiaramente evocati in molte scene e, scavando un po’ più a fondo, a quel piccolo capolavoro del cinema muto che è Häxan di Benjamin Christensen.