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WATCHER – LA PAURA STA NEGLI OCCHI DI CHI GUARDA

Watcher di Chloe Okuno – in arrivo nelle sale italiane dal 7 settembre – è un ottimo thriller d’esordio denso di suspense e pathos, che racconta in maniera impeccabile gli stadi della paura del pericolo in agguato – dalla prospettiva tipicamente femminile di chi quel pericolo ha dovuto imparare a osservarlo, riconoscerlo e stanarlo.

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CRIMES OF THE FUTURE: DAVID CRONENBERG IS THE NEW CRONENBERG

A ventitré anni da ExistenZ, David Cronenberg torna ad abbracciare il suo body horror con un film al quale plasma i connotati in maniera estremamente personale e intensa. Ecco la recensione in anteprima di Crimes of the Future, in uscita nelle sale italiane il 24 agosto 2022.

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CAVEAT: PAURA NELLA TANA DEL BIANCONIGLIO

Può l’atmosfera infinitamente cupa e angosciante di un film sopperire alle numerose, paradossali e imperdonabili lacune di una sceneggiatura sforacchiata e fragile? La risposta nella maggior parte dei casi sarebbe un no secco, ma in Caveat, primo lungometraggio dell’irlandese Damian Mc Carthy, le voragini nella scrittura e gli abissi scavati da prospettive diegetiche prive di senso vengono parzialmente riempiti dal continuo risuonare di un’inquietudine quasi atavica legata al buio, al silenzio, all’isolamento, all’inciampo sull’impossibile.

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Nudist colony of the dead: tutti insieme appassionatamente morti

Cosa succede se un gruppo di teenager viene mandato in un’ex colonia nudista invasa da zombi, per un campeggio cristiano all’insegna della preghiera e della morigeratezza?
Essi canteranno e balleranno tutti insieme dei motivetti terribilmente accattivanti, regalando il migliore spettacolo che ci si possa aspettare da una commedia- musical horror realizzata con un budget di circa 2,500 dollari: Nudist Colony of the Dead, diretta da Mark Pirro, noto ai più – cioè ai meno – per aver coraggiosamente diretto una discreta quantità di B-movie horror demenziali quali “Curse of the Queerwolf“, “A Polish vampire in Burbank” e “Rectuma“.

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The Hypnotic Eye (1960): deturpazioni facciali, stati di trance e hype

Se c’è una lezione che s’impara pensando allo strano caso di The Hypnotic Eye, poco nota pellicola del 1960 diretta da George Blair, pubblicizzata in maniera massiccia per poi essere quasi dimenticata negli anni a venire, è che a volte il marketing non paga.
Era l’epoca della pubblicità aggressiva, delle grandi occasioni, della spensieratezza economica e il cinema, preso anch’esso da questa frenesia, ingurgitava frotte di spettatori attratti dalla voglia di novità, di tecniche di ripresa avveniristiche e di visioni coinvolgenti. Seguendo l’esempio di William Castle, prolifico regista di B-movie e produttore di Rosemary’s Baby, incoronato re dei “gimmick” (ovvero delle trovate pubblicitarie sensazionalistiche e fantasiose), la casa produttrice di The Hypnotic Eye prometteva infatti alla sua audience un’esperienza elettrizzante grazie allo spettacolo di Ipnomagia, una fregnaccia inventata su due piedi dai pubblicitari per far credere che gli spettatori sarebbero caduti realmente in stato di trance durante la visione del film, con tanto di dimostrazioni promozionali dal vivo per generare quello che oggi chiamiamo hype.

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[Recensione] Slumber: demoni del sonno e incubi soporiferi

Esiste qualcosa di più inquietante dei disturbi del sonno? Di vedere qualcuno aggirarsi per casa, occhi spiritati e privo di coscienza, compiere azioni apparentemente senza senso? Di avvertire una presenza o essere gli unici a vedere ombre e arabeschi di materia oscura aggirarsi minacciosi nella stanza da letto? Di aprire gli occhi nel cuore della notte e non riuscire a muoversi né gridare? Sonnambulismo, allucinazioni ipnagogiche e paralisi del sonno sono fenomeni reali e per questo più terrificanti di qualsiasi entità paranormale. Basterebbe tenere in mente questo dettaglio – di come la realtà, con le sue sfaccettature reali e spigolose, possa spaventare più di qualsiasi mostro o apparizione – per creare un horror credibile ed efficace. Ma Slumber di Jonathan Hopkins intraprende un sentiero diverso, indugiando su jumpscare, demoni e ricostruzioni scientificamente poco accurate di fenomeni ampiamente diffusi e tipici come la deambulazione notturna, gli stati allucinatori durante la transizione sonno-veglia o le paralisi.

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[Recensione] The Transfiguration: come diventare un vampiro in poche semplici mosse

Imparare a memoria la filmografia dedicata, accumulare ricchezze, bere sangue umano almeno una volta al mese. Queste le regole del perfetto succhiasangue secondo Milo, un adolescente introverso e taciturno che elabora certi traumi personali sviluppando un interesse morboso verso il mito del vampiro, creatura affascinante ma condannata alla solitudine, essere che si nutre delle vite altrui ma che dalle vite altrui è attratto, demone tanto potente quanto vulnerabile. The Transfiguration di Michael O’ Shea, ambientato nel Queens, a New York, in un isolato ad alta concentrazione di criminalità e disagio, cita in maniera aperta e speculare Let the right one in di Tomas Alfredson, la pellicola svedese del 2008 che ha cambiato per sempre il modo di guardare e raccontare i vampiri.

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Bloodsucking Freaks, the Torture Horror Porno Show

Uno dei primi commenti nei quali ci si imbatte su Rotten Tomatoes cercando informazioni su Bloodsucking Freaks di Joel M. Reed (e che mi ha spinta a vederlo di corsa) è: “Se ti è piaciuto guardare questo film, onestamente non voglio conoscerti“.
Un film di brutte persone per brutte persone, questo, dal titolo fuorviante e dalla storia scalcinata: inizialmente titolato “The Incredible Torture Show“, T.i.t.s. per gli amici, sfuggito in maniera rocambolesca alla censura e gloriosamente distribuito dalla Troma, Bloodsucking Freaks è un tripudio di cattivo gusto, exploitation grossolana, torture di vario genere e scene di comicità più o meno involontaria.
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Savage Hunt of King Stakh (1980): dalla Bielorussia con folklore

In principio era The Wicker Man, e folk horror fu. Il film del ’73 di Robin Hardy – non il primo del suo genere, ma probabilmente il più famoso  – ha aperto la strada a un filone cinematografico dal potenziale tanto ricco quanto poco sdoganato, quello che racconta le tradizioni più spaventose, i miti e le leggende legati a un luogo. Non esiste un paese o una comunità in cui non ci sia del folklore, e non esiste folklore che non rimandi all’occulto, alla magia, a creature mostruose, a superstizioni dimenticate e a dimensioni altre: perché quindi non travasare questo mondo bizzarro su pellicola come forma moderna di narrazione? Da Il grande inquisitore (1968) a The VVitch (2015) passando attraverso Kill List o A field in England, tra i più famosi, o tra i decisamente meno popolari Jug Face e Lord of Tears, senza dimenticare il contributo fondamentale dei registi scandinavi in quella che si configura come una vera e propria invasione nordica del genere horror e che tanto mutua dai racconti dei boschi e dalla mitologia norrena (troverete prossimamente un apposito listone  dedicato), il folk horror sembra godere di ottima salute pur rimanendo all’interno di un’enclave ben protetta.

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Dellamorte Dellamore è una cosa meravigliosa

C’era una volta Dyland Dog, anzi no: c’era una volta Francesco Dellamorte, protagonista del romanzo Dellamorte Dellamore, scritto nel 1983 da Tiziano Sclavi – che avrebbe esordito con Dylan Dog tre anni dopo – ma pubblicato solo nel 1991, divenuto per coincidenza un piccolo caso letterario e tramutato in maniera quasi altrettanto accidentale in un film diretto da Michele Soavi nel 1994. Che casino.

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