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BLISS e VFW: BAGNI DI SANGUE AL NEON SOTTO IL SEGNO DEL PUNK HORROR

Joe Begos, regista statunitense classe 1987, dopo un interessante esordio nel 2013 con “Almost human”, ritorna con VFW e Bliss, due film appartenenti al filone del genere punk horror sorprendentemente validi, accomunati dall’affanno per una ricerca estetica votata alla violenza lisergica, dalle droghe come motore immobile dell’azione e dall’ambientazione urbana caratterizzata da un certo livello di degrado.

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[RECENSIONE] COLOR OUT OF SPACE DI RICHARD STANLEY

Se tre è il numero perfetto, Color Out of Space  è un film triplicemente fortunato: terzo riadattamento cinematografico statunitense del racconto di H.P. Lovecraft “Il colore dallo spazio“, terzo lungometraggio di Richard Stanley – regista sudafricano autore negli anni Novanta di due piccoli cult atipici a cavallo tra horror e cyberpunk postapocalittico, “Hardware Metallo letale” e “Demoniaca“, riapparso improvvisamente dalle sabbie dell’oblio – e terzo horror di successo interpretato da Nicolas Cage negli ultimi tre anni dopo “Mom and Dad” e “Mandy“.

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[RECENSIONE] THE LIGHTHOUSE DI ROBERT EGGERS

Il faro di un’isola sperduta, gli scalcagnati deliri di due marinai ubriachi, la loro allucinata discesa verso la follia, e a fare da sfondo il mare, perturbante ancestrale in cui si perdono il senso del tempo, dell’identità e della realtà: The Lighthouse, l’ultima fatica di Robert Eggers – già autore di quella piccola gemma folk horror del cinema indipendente che è The VVitch – unisce elementi visivi e concettuali parecchio eterogenei, dando vita a un prodotto atipico e affascinante.

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[RECENSIONE] MIDSOMMAR DI ARI ASTER

Di Midsommar – in uscita il 25 luglio in Italia con l’infelice sottotitolo “Il villaggio dei dannati” – si parla tantissimo già dallo scorso anno: perché dal regista Ari Aster, apparso dal nulla e subito promosso ad astro nascente del cinema horror col suo primo lungometraggio Hereditary, ci si aspetta grandi cose. E Midsommar non delude certo le aspettative, con una messa in scena pantagruelica all’insegna dell’eccesso e della grandiosità.

[Attenzione: contiene spoiler]

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[RECENSIONE] I MORTI NON MUOIONO (E INTANTO SI ANNOIANO)

Non tutte le ciambelle riescono col buco né tutte le “brillanti” commedie horror sono poi davvero così splendide. Nemmeno se a girarle è Jim Jarmush. Nemmeno con un cast bravo e ruffiano. Nemmeno con buone fotografia e messa in scena. Alla sacrosanta curiosità suscitata da The Dead don’t Die – appena uscito in Italia col titolo “I morti non muoiono”, non corrisponde altrettanta soddisfazione, per un horror che omaggia l’horror senza sapere perché.

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[Recensione] Hereditary: i panni sporchi si evocano in famiglia

Esistono due modi per approcciarsi alla visone di Hereditary, il lungometraggio d’esordio dell’americano Ari Aster che ha lasciato soddisfatti molti, perplessi altri e con la costante sensazione di essersi persi qualcosa di fondamentale ai fini della comprensione del film  un po’ tutti: guardarlo una prima volta, leggere subito dopo qualche articolo-spiegone (come ad esempio questa umile guida ai dettagli, simboli e segnali all’interno del film che forse vi erano sfuggiti) e magari guardarlo una seconda volta, alla luce della nuova consapevolezza acquisita. Oppure leggere in maniera preliminare qualche articolo-spiegone (come ad esempio questa umile guida ai dettagli del film che forse vi sareste persi con l’inevitabile presenza di spoiler parecchio rilevanti sulla trama e annientamento di qualsiasi effetto sorpresa), guardarlo un’unica volta, saperla lunga, fare bella figura con gli altri spettatori e mostrare una consapevolezza quasi sospetta su dettagli, simboli e segnali sparsi qua e là lungo la pellicola. Quale che sia la scelta, da qui in avanti appariranno  suddetti spoiler parecchio rilevanti.

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[Recensione] Unsane: io sto bene, io sto male

Non sarà certo il primo né tanto meno l’ultimo, ma Steven Soderbergh con il suo nuovo film Unsane, girato interamente con un iPhone, dimostra ancora una volta che le dimensioni  (della videocamera) non contano, è importante come la si usa. E ancora di più contano le idee, soprattutto se si realizza un horror psicologico dall’ambientazione scarna, tutto occhi sgranati e straniamento.

[Attenzione: di seguito, spoiler rilevanti sulla trama]

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[Recensione] The Endless: verso l’infinito e horror

Era il lontano 2012 e due giovani registi-scenografi-produttori rispondenti ai nomi di Justin Benson e Aaron Moorhead confezionavano “Resolution“, un piccolo gioiellino horror indipendente sconosciuto ai più. Quel film è il punto di partenza e di ritorno essenziale nel quale emerge già la cifra stilistica del duo, destinato a rimanere unito nelle seguenti produzioni (Spring e VHS / Viral, fyi): basso budget e buone idee, paradossi spazio-temporali e atmosfere lovecraftiane, approccio personale e disinvolto alla macchina da presa.

[Attenzione: da qui in avanti troverete spoiler rilevanti sulla trama]

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The Hypnotic Eye (1960): deturpazioni facciali, stati di trance e hype

Se c’è una lezione che s’impara pensando allo strano caso di The Hypnotic Eye, poco nota pellicola del 1960 diretta da George Blair, pubblicizzata in maniera massiccia per poi essere quasi dimenticata negli anni a venire, è che a volte il marketing non paga.
Era l’epoca della pubblicità aggressiva, delle grandi occasioni, della spensieratezza economica e il cinema, preso anch’esso da questa frenesia, ingurgitava frotte di spettatori attratti dalla voglia di novità, di tecniche di ripresa avveniristiche e di visioni coinvolgenti. Seguendo l’esempio di William Castle, prolifico regista di B-movie e produttore di Rosemary’s Baby, incoronato re dei “gimmick” (ovvero delle trovate pubblicitarie sensazionalistiche e fantasiose), la casa produttrice di The Hypnotic Eye prometteva infatti alla sua audience un’esperienza elettrizzante grazie allo spettacolo di Ipnomagia, una fregnaccia inventata su due piedi dai pubblicitari per far credere che gli spettatori sarebbero caduti realmente in stato di trance durante la visione del film, con tanto di dimostrazioni promozionali dal vivo per generare quello che oggi chiamiamo hype.

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[Recensione] Slumber: demoni del sonno e incubi soporiferi

Esiste qualcosa di più inquietante dei disturbi del sonno? Di vedere qualcuno aggirarsi per casa, occhi spiritati e privo di coscienza, compiere azioni apparentemente senza senso? Di avvertire una presenza o essere gli unici a vedere ombre e arabeschi di materia oscura aggirarsi minacciosi nella stanza da letto? Di aprire gli occhi nel cuore della notte e non riuscire a muoversi né gridare? Sonnambulismo, allucinazioni ipnagogiche e paralisi del sonno sono fenomeni reali e per questo più terrificanti di qualsiasi entità paranormale. Basterebbe tenere in mente questo dettaglio – di come la realtà, con le sue sfaccettature reali e spigolose, possa spaventare più di qualsiasi mostro o apparizione – per creare un horror credibile ed efficace. Ma Slumber di Jonathan Hopkins intraprende un sentiero diverso, indugiando su jumpscare, demoni e ricostruzioni scientificamente poco accurate di fenomeni ampiamente diffusi e tipici come la deambulazione notturna, gli stati allucinatori durante la transizione sonno-veglia o le paralisi.

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