10 cose che ho imparato guardando The Craft: Legacy

The Craft: Legacy, distribuito in Italia come “Il rito delle streghe” è il sequel/reboot del celeberrimo The Craft (Giovani Streghe) di Andrew Fleming. Diretto dalla statunitense Zoe Lister-Jones, prodotto da Blumhouse e distribuito da Eagle Pictures all’insegna della grandiosità ereditata dalla pellicola cult alla quale si ispira, ma alla quale non assomiglia poi granché. Alla base di entrambi i film, c’è la storia di quattro giovani streghe che vanno incontro alle terribili e insanabili conseguenze di certi rituali magici al di fuori della loro portata. A fare da sfondo, l’emarginazione, il bullismo dei coetanei e vari traumi pregressi. Ma a dividere le due pellicole è un abisso ideologico e generazionale: le due pellicole distano venticinque anni esatti l’una dall’altra.
Ecco quel che ho capito guardando questo film, che ha definitivamente accantonato le venature horror dell’originale optando per un approccio soft al fantastico.

1: Quando ho guardato Giovani streghe ero giovane.
The Craft è uscito in Italia nel 1996, avevo nove anni. Quel film l’avrei visto poco tempo dopo, in piena adolescenza, quando pensieri, preoccupazioni e interessi erano molto diversi da quelli attuali.
Quel film parlava di bullismo, insicurezze, discriminazioni in ambiente scolastico, voglia di evasione e affermazione, parlava di perdita di controllo e di dipendenze, di occultismo e cattiveria. Aveva tutto ciò che una ragazza semplice degli anni Novanta avrebbe voluto vedere in un film sulle streghe.
Normalmente non dovrebbe fare tanta differenza il periodo della vita in cui si guarda un film per farselo piacere, soprattutto se è un buon film, ma quando si tratta di film adolescenziali o generazionali del nuovo millennio, essere in linea col target anagrafico è fondamentale.

SYFY - 45 Thoughts I had while watching The Craft
Le ragazze semplici degli anni Novanta in “Giovani Streghe”

2: Adesso invece sono vecchia. Almeno per film come Il rito delle streghe.
Benché i trenta siano i nuovi venti – ma solo per chi li ha già superati – riesce davvero difficile fare propria la visione di un film per adolescenti e preadolescenti che è concepito, scritto, diretto e confezionato per un ideale pubblico di teenager appartenenti a quella che viene definita con l’aberrante nomignolo di “generazione Z“. E quando inizi a non utilizzare lo stesso slang delle attrici o a non condividerne le scelte di stile di abbigliamento, acconciature e make up, è perché probabilmente sei troppo vecchia rispetto a loro.

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Le giovani protagoniste de “Il rito delle streghe” che alla metà dei miei anni sanno già truccarsi dieci volte meglio di me.

3:  È difficile non sembrare dei dinosauri brontoloni quando si critica un film lontano dai propri orizzonti.
Benché l’alibi dello scarto generazionale sia un lenzuolo troppo ristretto per riuscire a coprire tutte le pecche e le storture di un film che, anche solo dal punto di vista meramente tecnico, si inceppa più volte tra narrazioni ellittiche ed evasive che pongono lo spettatore nell’imbarazzante paradosso di sentir dialogare in continuazione personaggi dei quali non si conosce quasi per nulla la storia, il passato, il pensiero.

4:  L’inclusività spiegata in coro e somministrata col cucchiaino forse non è un bene, ma certamente non è un male.
Se anche voi appartenete a quella generazione soprannominata con l’imbarazzante nomignolo di “Generazione Y“, o dei millennial (quella che, con sommo sgomento di chi vi fa parte, comprende i nati tra l’inizio degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta) avrete probabilmente notato come certi film e certe serie TV destinati al pubblico più giovane sembrino confezionati seguendo standard uniformanti, con strutture semplici e familiari e dunque più facili da comprendere, e utilizzando contenuti e dialoghi che in maniera esplicita e didascalica propongono un insegnamento: il bullismo è sbagliato, i disturbi alimentari sono una cosa seria, bisogna imparare ad amare sé stessi e la diversità altrui, abbasso il razzismo, che brutto lo stupro, w l’inclusione, eccetera. Per le vecchie generazioni cresciute nel privilegio, in compagnia di film che talvolta normalizzano, mitizzano o romanticizzano comportamenti maschilisti, violenti e discriminatori, e che supportano più o meno velatamente la rape culture, il body shaming, il sessismo e gli stereotipi culturali, è difficile accorgersi, ammettere o comprendere che un film possa essere offensivo per qualcun altro oppure che si possa soltanto mettere in discussione un canone imbrigliato in schemi mentali e sociali appartenenti al passato, o ancora che pellicole apparentemente innocue vadano guardate con occhio critico e con la debita contestualizzazione culturale, rispettivamente e tradizionalmente a carico dell’educazione famigliare e del sistema scolastico; questi ultimi, col passare del tempo hanno parecchio allentato le briglie di un circolo educativo opprimente e obsoleto, ma fallendo talvolta nell’individuare un valido sostituto. Ed è proprio in questo anfratto che trovano spazio da un canto la sempre più diffusa difficoltà a distinguere un prodotto artistico da un modello comportamentale e dall’altro una pletora di produzioni televisive e cinematografiche con vocazione edificante come rimedio o panacea per la perdita dei riferimenti educativi tradizionali.
Ci si potrebbe allora chiedere se sia giusto che il mondo dell’intrattenimento si accolli l’onere di educare e plasmare le nuove generazioni. Ma in fondo, non l’ha sempre fatto?

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5:  Quello che succede negli anni Novanta, rimane negli anni Novanta.
E va bene così. Giovani Streghe, pur essendo tutt’altro che un capolavoro, è diventato col tempo un cult, è iconico. Non è un film animato da buoni sentimenti, perché lascia spazio a narrazioni negative e tossiche: innanzitutto è una storia di amicizia femminile al contrario, che inizia bene presentando le tre emarginate della scuola legare con la nuova arrivata, iniziandola alla magia e intraprendendo insieme un cammino di affrancamento dal bullismo e dalle proprie insicurezze, ma che poi finisce malissimo, tra invidie, tradimenti e tragici epiloghi.
Venticinque anni dopo, una storia del genere – se proposta ad un pubblico molto giovane – mostra tutti i suoi limiti. Infatti ne Il rito delle streghe le ragazze non nutrono mai sentimenti negativi l’una verso l’altra, si spalleggiano e si confrontano, sono autocritiche e consapevoli e
non fanno altro che supportarsi a vicenda, unite verso il nemico comune, in questo caso il patriarcato. Si passa dunque dall’odio verso sé stesse e dalla voglia di cambiare la propria persona nel tentativo di vivere una vita migliore, all’orgogliosa rivendicazione della propria diversità come fonte di potere; dal tentativo di portare a compimento desideri effimeri e materiali di bellezza-potere-danaro ad afflati di tutt’altro tenore attinenti la sfera emotiva e spirituale.

7: David Duchovny interpreta il demone del patriarcato…
… Ed è stato un colpo al cuore, perché ai miei occhi Duchnovy sarà sempre il buon Fox Mulder di X-Files.
Qui invece il suo personaggio incarna il maschilismo più bieco, nel triplice ruolo di patrigno padrone, coach motivazionale per uomini desiderosi di riscoprire la propria virilità (?) o qualcosa del genere e di demone che odia le donne perché ne invidia il potere. Okay.

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8: Il significato del termine “woke”.
Le giovani streghe liceali a un certo punto decidono di vendicarsi del bullo/figo della scuola Timmy, rendendolo sensibile e consapevole attraverso un potente incantesimo che lo costringerà a rivelare il suo lato gentile nascosto. Come una scimmia ammaestrata, Timmy inizierà a sfoggiare discorsi sulle ingiustizie sociali, sulla parità di genere e sul ribaltamento del linguaggio eteronormativo. Egli verrà definito per questo “woke”, ma essendo il suo comportamento frutto di una forzatura innaturale e non di un cambiamento volontario e consapevole, le amiche converranno, esplicitandolo in maniera chiara e didascalica, che forzare l’atteggiamento altrui attraverso la magia è sbagliato perché viene meno il consenso e quindi non si fa.

9: I desideri, le ambizioni e i disastri di due generazioni differiscono molto tra loro.
Ciò che le ragazze di Giovani Streghe desideravano erano la bellezza, l’accettazione, l’amore, la ricchezza e sembrava normale affidare alla magia il totale ribaltamento della propria esistenza. Perché erano gli anni Novanta, un periodo buio e profondamente depresso, non esattamente il decennio dei grandi ideali alla riscossa. Il fulcro dell’intero film è un grandioso rituale fatto al preciso scopo di migliorare la propria condizione: la ragazza deturpata dalle cicatrici vuole una pelle splendida, quella vittima di razzismo vuole umiliare chi ha umiliato lei, quella offesa dal bullo/figo della scuola vuole farlo diventare uno zerbino, e quella sfortunata nella vita vuole avere una vita meravigliosa. Se la magia è una droga, il momento dell’overdose non tarderà ad arrivare sotto forma di inquietante contrappasso.
Le ragazze di The Craft: Legacy non sembrano invece avere particolari desideri in saccoccia: d’altro canto, sono già belle, benestanti e cariche di autostima. Di certo nessuna di loro odia sé stessa o il proprio aspetto fisico.

10: “We are the weirdos, mister” è una frase da usare con cautela.
Sono pochi gli elementi che collegano The Craft a The Craft: Legacy, al punto da richiedere un’attribuzione di significato fluida ai termini sequel e reboot. Da un punto di vista cronologico, i fatti narrati nell’ultimo film avvengono venticinque anni dopo quelli del primo, con tanto di legame parentale a sorpresa tra una protagonista del primo e una del secondo. Quindi si tratterebbe di un sequel. Ma i fatti narrati ricalcano, almeno fino a un certo punto, quelli del film originario, pur con tutte le radicali differenziazioni ideologiche del caso. E quindi potrebbe andar bene parlare di reboot. Ma la frase-manifesto di Giovani Streghe, “Siamo noi i tipi strani“, perde completamente di forza nel nuovo film perché non ha più la casuale gratuità di una risposta salace data a uno sconosciuto, diventando una semplice citazione a effetto che farà scendere una lacrimuccia ai millennial che la ricordano e che invece probabilmente non desterà alcuna emozione tra le nuove leve, che il vecchio film potrebbero non averlo mai nemmeno visto.

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