In principio era The Wicker Man, e folk horror fu. Il film del ’73 di Robin Hardy – non il primo del suo genere, ma probabilmente il più famoso – ha aperto la strada a un filone cinematografico dal potenziale tanto ricco quanto poco sdoganato, quello che racconta le tradizioni più spaventose, i miti e le leggende legati a un luogo. Non esiste un paese o una comunità in cui non ci sia del folklore, e non esiste folklore che non rimandi all’occulto, alla magia, a creature mostruose, a superstizioni dimenticate e a dimensioni altre: perché quindi non travasare questo mondo bizzarro su pellicola come forma moderna di narrazione? Da Il grande inquisitore (1968) a The VVitch (2015) passando attraverso Kill List o A field in England, tra i più famosi, o tra i decisamente meno popolari Jug Face e Lord of Tears, senza dimenticare il contributo fondamentale dei registi scandinavi in quella che si configura come una vera e propria invasione nordica del genere horror e che tanto mutua dai racconti dei boschi e dalla mitologia norrena (troverete prossimamente un apposito listone dedicato), il folk horror sembra godere di ottima salute pur rimanendo all’interno di un’enclave ben protetta.
È questo l’ambito a cui fare riferimento per parlare di Savage Hunt of King Stakh, semisconosciuta pellicola bielorussa del 1980 diretta da Valeri Rubinchik e basata sull’omonimo romanzo di Uladzimir Karatkevič. Nove anni prima che crollasse l’Unione Sovietica e dieci prima della dichiarazione d’indipendenza, la Bielorussia sfornava un “dramma mistico” (con tutte le carte in regola per poter essere definito, oggi, folk horror) a tinte fosche sulle leggende della Polesia, una ridente regione paludosa a cavallo tra i propri confini e quelli ucraini.
La vicenda narrata ruota intorno allo studioso di etnografia Bielarecki, che in una notte buia e tempestosa di fine Ottocento giunge al castello di Marsh Firs in cerca di preziose informazioni sulle credenze locali e vi trova la giovane Nadezhda Janowskaya, proprietaria e ultima rappresentante della casata padrona del castello, un etereo coacervo di paranoie, superstizioni e ossessioni fantasmatiche di varia entità. L’ironia della sorte vuole che lo studioso in cerca di misteri abbia un approccio scettico e razionale nel condurre la sua ricerca, mentre l’esile ereditiera non sembra desiderare altro che sfuggire a quegli stessi fenomeni paranormali ai quali giura di assistere ormai da troppo tempo. La lotta tra ragione e sentimento viene continuamente interrotta dalle incursioni dei personaggi secondari e da avvenimenti inspiegabili per lo stesso studioso: l’ambiguo guardiano del castello, uno studente ficcanaso, un pretendente di Nadezhda, una donna dall’aspetto cadaverico, i passi frettolosi di un misterioso “Omino” che si aggira, non visto, tra le mura del castello, e l’ombra cerulea della “Donna blu”, che vaga senza pace tra le stanze della tenuta. E poi c’è il terribile rombo della caccia selvaggia di Re Stakh, lo scalpitare di un’orda a cavallo foriera di morte e distruzione che porta via con sé, per spirito di vendetta, tutti i discendenti dei Janowski ma anche tutti coloro che incrociano malauguratamente il suo cammino.
Quello della caccia selvaggia è un mito presente in molte culture europee, dalla Scandinavia alla Spagna: durante le notti di alcuni periodi tradizionalmente significativi per l’uomo (equinozi, solstizi e soprattutto tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio) un corteo fantasma formato da uomini trapassati, animali dall’oltretomba, demoni e creature varie sfila furiosamente, impegnato in una battuta di caccia e condotto da una divinità (per chi volesse approfondire il discorso, se ne parla qui). Nel caso di questa pellicola non è però Odino a condurre l’esercito ultraterreno ma il “re” Stakh, un personaggio vissuto secoli addietro, molto amato dal popolo contadino, ucciso alle spalle da un membro della casata Janowski e da allora in cerca di vendetta. Riuscirà Bielarecki a fare luce sui fatti tetri dell’altrettanto tetro castello di Marsh Firs? Purtroppo sì, con buona pace dell’atmosfera inquietante dal retrogusto spiccatamente gotico e dell’intrigante caleidoscopio di figure misteriose che si vanno a infrangere su un muro di razionalità e deludenti rivelazioni, mentre la caccia feroce, privata della sua aura infernale, cede il passo a una ben più terrena caccia all’uomo condotta da un’orda di contadini in rivolta, con un simbolico passaggio di testimone – e di responsabilità – dal mistico al politico.
Savage Hunt of King Stakh è un film figlio del suo tempo – stiamo pur sempre parlando di una pellicola bielorussa del 1980 – e, già nelle intenzioni del regista, non ha la pretesa di essere un horror canonico: ha la struttura e i birignao tipici del dramma pur rimanendo un esempio sui generis, con la sua vocazione all’inquietudine che gli fa guadagnare un posto d’onore tra le pellicole folk horror ingiustamente dimenticate.