[Recensione] Hagazussa, la strega della porta accanto

Se è vero che le parole possiedono un potere evocativo intrinseco, un film intitolato Hagazussa,  termine dall’etimo complesso e controverso che affonda le sue radici nell’antico germanico e che indica approssimativamente la strega e l’incantesimo, trasmette da subito l’atmosfera giusta. E l’idea che si tratti di un film d’esordio, anzi del lavoro di fine corso di uno studente di cinema, lascia a bocca aperta.

La vicenda di Hagazussa – A Heathen’s Curse è ambientata nel XVesimo secolo, in un villaggio arroccato sulle Alpi austriache i cui abitanti si cibano in egual misura di latte appena munto e superstizioni grossolane. Qui, la presenza di una donna sola, con una bimba nata da padre ignoto e ancora legata a riti e tradizioni pagane non è certo vista di buon occhio. Martha e la piccola Albrun ci vengono presentate così: vecchia, perversa e moribonda la prima, giovanissima, ingenua e devota alla madre la seconda, minacciate entrambe dai vicini del villaggio travestiti da Klausen, che con indosso costumi dalle terrificanti sembianze caprine, muniti di torce e campanacci, non si peritano di cacciare via gli spiriti maligni nel cuore della notte. Il folklore nordico e certe antiche tradizioni pagane, riesumati dai ricordi d’infanzia del regista, emergono quindi in filigrana e fanno da accurato background storico-culturale della pellicola. (Chi volesse approfondire il discorso su Perchta e i dodici giorni, cui si fa cenno in Hagazussa, può consultare il sempre esaustivo Axis Mundi).

Con la morte della madre termina l’infanzia di Albrun, che troviamo in un salto temporale cresciuta, madre di una bimba nata da padre ignoto, sola al mondo e in silenziosa quiete a occuparsi di caprette e altre amene attività tipiche della vita di montagna. Gli abitanti del villaggio continuano a prenderla di mira additandola come strega, mentre una giovane donna decide di avvicinarla per conquistarne la fiducia e smascherarne la vera natura.

Albrun trascorre le proprie giornate in totale isolamento e poco o nulla suggerisce un suo effettivo rapporto con la stregoneria; solo il teschio della madre, decorato ed esposto a mo’ di altarino sacro, è il tramite per una dimensione altra di cui però la protagonista non sembra curarsi troppo. Almeno finché il suo precario equilibrio psichico non viene sconvolto dalla violenza dei vicini, che innescano in lei un meccanismo distruttivo e una vera e propria discesa negli abissi della mente e dell’annichilimento umano.

Ciò che fa Albrun, suo malgrado e in condizioni di scarsa lucidità, è odioso e imperdonabile, ma è in qualche modo verosimile, realistico, proprio ciò che ci si aspetterebbe da una strega e che si sentiva raccontare nelle vecchie storie tramandate dai bisnonni. La donna cede la propria anima e si vendica, diffondendo morte e malattia nel villaggio, perdendo ogni cosa e divenendo tutt’uno con i boschi colmi di presenze oscure e con i paesaggi alpini che assumono tinte cupe e angoscianti.

Quello realizzato dall’austriaco Lukas Feigelfeld è un horror- folk superbo, storicamente accurato e realistico ma allo stesso tempo allucinato e psicologico, che getta uno sguardo sulla sofferenza femminile legata alla maternità ma anche su antiche tradizioni dal fascino atavico. Si tratta di un film estremamente lento, quasi totalmente privo di dialoghi, minimalista eppure completo.  Una pellicola che cammina sulle proprie gambe e che si appoggia a una fotografia austera, studiata con perfezione quasi sospetta e a un impianto sonoro che mesmerizza, con tutta la cupezza delle musiche di MMMD, (duo greco specializzato in un genere deliziosamente etichettato come “chamber doom”). Un unicum se vogliamo, difficile da seguire e digerire per la lentezza con cui prosegue la narrazione ridotta all’osso, ma che trae ispirazione da altri precedenti illustri cui offre un tributo visuale: al di là dell’immediato ma semplicistico accostamento a The VVitch di Eggers per l’affinità tematica, non si può non pensare a Tarkovskij, Von Trier, Żuławski chiaramente evocati in molte scene e, scavando un po’ più a fondo, a quel piccolo capolavoro del cinema muto che è Häxan di Benjamin Christensen.

 

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