[Recensione] Incident in a Ghostland: fenomenologia del plot twist laugeriano

In principio era Martyrs, anzi no: quando il registra francese Pascal Laugier regalò al cinema horror la sua pellicola più famosa e controversa non era certo al suo esordio, né quella poteva fregiarsi del titolo di prima opera legata alla corrente del nuovo estremismo francese. Martyrs è stato però il suo film più famoso e memorabile, asceso per direttissima all’Olimpo dei film-che-forse-non-avete-ancora-visto-ma-che-dovreste-assolutamente-recuperare grazie a quel delicato insieme di dolore e paura attraversato da lontani echi di torture porn ed exploitation ammantati da un’aura metafisica.
Ma il punto di partenza per parlare di Laugier e del suo ultimo film, Incident in a Ghostland non dev’essere l’impossibile confronto con Martyrs o la conta delle differenze tra pellicole, quanto l’individuazione dei denominatori comuni di ogni suo lavoro: la sofferenza umana declinata con pazienza e dedizione in tutti i modi possibili e l’irresistibile richiamo del plot twist.

In tutti i film di Laugier, presto o tardi, il punto di vista narrativo fa una capriola e costringe lo spettatore ad esclamare “parbleu!“. Succede anche in Ghostland, nonostante i numerosi indizi sparpagliati ovunque già dai primi minuti della pellicola. Una madre sola con due figlie adolescenti – Beth e Vera – la vecchia casa ereditata da una parente eccentrica, il giornale che narra di due pericolosi maniaci del luogo che uccidono i genitori e seviziano le ragazzine, gli interni della vecchia casa infestati da bambole spaventose e inquietanti oggetti da collezione. Una delle due ragazzine esclama persino che le sembra di trovarsi nella casa di Rob Zombie. L’altra fino a poco prima citava H.P. Lovecraft, evocatore di eventi nefasti e impossibili per eccellenza.

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Il contesto è ben chiaro: avremo presto a che fare con la violenza e con la paura senza possibilità di fuga e redenzione. Non può esistere un finale felice. Così la madre sola con le due figlie adolescenti appena trasferitesi nella vecchia casa di bambole e cianfrusaglie, viene aggredita dai due mostri (un gigante deforme e un altissimo travestito, il cui ruolo consiste nel truccare e vestire le giovani vittime da bambole per poi consegnarle alle torture del compagno. Sembra che la critica americana non abbia apprezzato questa caratterizzazione dei personaggi, tirando in ballo la transfobia). Ci si aspetterebbe un film sulla scia di Non aprite quella porta o La casa dai 1000 corpi, ma – colpo di scena – i buoni hanno la meglio. La madre, peso complessivo cinquanta chilogrammi comprese le scarpe, riesce a fare fuori due uomini grandi, grossi e abituati a uccidere, mettendo in salvo le figliole. E in un flash forward che è l’indizio più plateale del plot twist laugeriano, vediamo le protagoniste cresciute: Beth è diventata una scrittrice famosa di romanzi horror, ha una bellissima famiglia, un figlio costantemente travestito da arlecchino e una vita soddisfacente. Vera è rimasta danneggiata a vita dal trauma vissuto e pratica atti di autolesionismo che sfidano ogni legge della fisica. La madre non è invecchiata di un solo giorno ed è rimasta a vivere in quella stessa casa in cui la sua famiglia è stata assaltata.

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Qualcosa non quadra e quel qualcosa è che la madre non ha mai sconfitto i due killer, è morta. Non sono trascorsi anni ma giorni. Beth e Vera sono tenute prigioniere in casa, ripetutamente torturate, seviziate, violentate, picchiate e costrette a giocare con i due mostri, ma una delle due sorelle abbandona il piano della realtà e proietta sé stessa in un altrove temporale in cui tutto è stato superato.
Il cuore di Ghostland sta in quel traumatico interscambio tra l’immaginario e il vissuto, nel dolore legato alla presa di coscienza di Beth. nella solitudine di Vera, rimasta a fianco della sorella che – ironia della sorte – si è chiusa in un immobile mutismo da bambola ma sta anche in una raffinata estetica del martirio che non si lascia mai andare troppo e non cede a facili tentazioni. Il film prosegue così, alternando lo sprofondare e riemergere di Beth dai suoi stati crepuscolari alla rappresentazione censurata di violenze e torture, mai mostrate esplicitamente allo spettatore.

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E proprio quando si smette di sperare in un lieto finale per le due protagoniste, nel pieno rispetto della tradizione degli horror a conduzione familiare, queste riescono a scappare, chiedere aiuto e infine a essere salvate mentre i cattivi vengono uccisi: un epilogo anomalo, che vede le due ferite, in stato di shock ma in definitiva salve e pronte a vivere per sempre felici e contente. Se non fosse che è improbabile. Se non fosse che Beth ha ancora allucinazioni. Se non fosse che questa nell’inquadratura finale infrange il quarto muro per confessare allo spettatore che il suo hobby è “raccontare storie”. Se le scene conclusive, con quell’improbabile epilogo, non convincono molto, è forse perché Laugier ha voluto inserire un nuovo, più subdolo colpo di scena senza mai esplicitarlo?

Ghostland di Pascal Laugier (2018) recensione

E se anche il finale mostrato facesse parte di un’idealizzazione immaginaria di Beth, magari tenuta ancora in balia dei suoi aguzzini? Un bivio interpretativo che pone di fronte a due possibilità: quella di un film che si sforza di aggiungere strati di significato e significante utilizzando stilemi di genere e cliché con cognizione di causa, oppure quella di un film cerchiobottista che si smarrisce lungo il cammino, senza avere coraggio di prendere una decisione.

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