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[RECENSIONE] HORROR IN THE HIGH DESERT E LE TRE REGOLE DEL FOUND FOOTAGE

[Attenzione: sono presenti spoiler]

Prima regola del found footage: non si parla (più) del found footage. Perché se questa tecnica ha favorito il proliferare di un sottogenere dell’horror, tanto squattrinato quanto vituperato per aver dato vita a una progenie di film di scarsissima qualità – in barba all’implicito accordo di onorare il compromesso tra povertà di budget e abbondanza di trovate interessanti – che continua a essere riproposto nel 2021, non si può che prenderne atto e accoglierlo con un misto di rassegnazione e consapevolezza, senza troppe chiacchiere, oppure ignorarlo e passare oltre, senza troppe polemiche.

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[RECENSIONE] Antrum: il diavolo si nasconde nei dettagli

C’era una volta – e c’è ancora – il mockumentary, un genere che dagli esordi sperimentali degli anni Trenta dello scorso secolo è giunto illeso fino ai nostri giorni, raccontando storie inventate, spacciate per vere e impacchettate nel confortante involucro del finto documentario.
C’era una volta – e c’è ancora – anche il found footage, croce e delizia del genere horror da Cannibal Holocaust in poi, rappresentando al contempo un’alternativa semplice ed economica agli inarrivabili costi di produzione ma anche un espediente filmico un po’ troppo inflazionato e banalizzato nel corso degli anni Duemila a suon di riprese pseudo-amatoriali tutte scossoni e interferenze.
Mockumentary e found footage, incrociati i loro cammini in svariate occasioni, hanno continuato a farlo anche nel 2019, quando tutto ormai sembrava essere già stato visto e raccontato, facendo da numi tutelari a una pellicola che si fregia del titolo di “film più letale mai realizzato” e che si è affidata a un infelice tentativo di viral marketing a la Blair Witch Project, diffondendo la notizia del ritrovamento di un vecchio film considerato perduto: Antrum The deadliest film ever made, di David Amito e Michael Laicini.

Un preambolo necessario, questo, per spiegare la duplice natura del film,  composto da un’introduzione documentaria, che attraverso le  (finte) testimonianze di (finti) critici cinematografici, organizzatori di festival e altri addetti ai lavori, presenta un (finto) film maledetto degli anni Settanta, la cui visione e proiezione avrebbe provocato in maniera indiretta la morte degli spettatori, addirittura l’incendio di un intero cinema in Ungheria e del quale una copia sarebbe misteriosamente riapparsa in tempi recenti.
I primi dieci minuti di freddo resoconto documentaristico sono insomma una dichiarazione d’intenti, un messaggio di monito che mette in guardia lo spettatore sulla vocazione della pellicola, anticipando in maniera più o meno esplicita tutto ciò che seguirà, ossia il film vero e proprio, con tutti i suoi dettagli – numerosi, significativi e da non sottovalutare – all’interno dei quali si nasconde il Diavolo in persona, presenza malefica effettiva e causa di suggestioni inconsce e oniriche, spaventi e malori. A incontrare il demonio, in uno strano bosco a metà tra non-luogo di passaggio dalla vita alla morte e sala d’attesa dell’inferno, sono il piccolo Nathan, traumatizzato dalla morte del suo cane, e la sorella maggiore Oralee, che nel tentativo di far superare il lutto al fratello lo coinvolge in un rituale, convincendolo della possibilità di redimere l’anima dell’amato cane. Il gioco innocente dei ragazzini si trasforma ben presto in un’ambigua discesa agli inferi scandita da apparizioni demoniache e una terrificante sospensione del senso della realtà.

Pellicole perdute, film che non esistono e Fury of the Demon

Quello trattato da Antrum – The deadliest film ever made non è un tema originale ma nemmeno una semplice scopiazzatura: è il topos cinematografico della pellicola misteriosa, del film perduto e ritrovato, possibilmente maledetto, la cui visione condurrebbe gli spettatori alla follia o alla morte. Di film perduti, o non ancora ritrovati, nascosti negli anfratti di polverose soffitte o negletti in certi archivi, ce ne sono tanti; come tante sono le pellicole dalla fama sinistra. Succedeva soprattutto durante i primi anni di produzioni e sperimentazioni cinematografiche, che le bobine andassero perdute per sempre, distrutte da incendi o semplicemente smarrite, o magari celate per lunghi periodi a causa di un’errata catalogazione. E succedeva soprattutto con i film horror, colpevoli di aver scomodato impropriamente le forze del male, spingendosi un po’ troppo in là con simulate evocazioni, di dar vita a una lunga sequela di morti e sciagure tra attori e membri della troupe: si pensi a casi esemplari come L’Esorcista, Poltergeist e Rosemary’s Baby.
E poi ci sono film (girati con lo stile del mockumentary e/o del found footage) che parlano di altri film (considerati perduti e/o maledetti) che non esistono affatto: primi fra tutti Ringu di Hideo Nakata e Cigarette Burns di John Carpenter, esplicitamente citati nella parte introduttiva di Antrum. Ma esiste anche un mockumentary del 2016, pressoché sconosciuto per qualche curiosa coincidenza, che ricorda parecchio questo film: La rage du Démon (Fury of the Demon) di Fabien Delage, ricostruzione minuziosa e totalmente inattendibile della storia di una pellicola maledetta e introvabile attribuita a Georges Méliès. Su questo film, che non viene citato in Antrum ma che ne condivide addirittura alcuni fotogrammi tratti da The merry frolics of Satan e altre opere del visionario regista francese, vale la pena soffermarsi brevemente perché ne anticipa gli argomenti con una sola, macroscopica differenza: in Fury of the Demon, il film maledetto non viene mai mostrato e l’intera durata della messa in scena è dedicata alle testimonianze di chi avrebbe avuto a che farci, o di avrebbe voluto.
Partendo da un assunto reale, ovvero la scomparsa di molti cortometraggi realizzati da George Méliès nel corso della sua carriera, il mockumentary dà voce a personaggi – che in realtà non esistono – del mondo del cinema, nel tentativo di ricostruire la storia di una pellicola, La rage du Demon appunto, le cui proiezioni sarebbero sempre sfociate in pubbliche tragedie, con crisi d’isteria di massa e cinema incendiati, e la cui tribolata vicenda riguarderebbe lo stretto rapporto tra Méliès e il mondo dell’occulto. Quella di non mostrare il finto film incriminato ma di creare un finto documentario che ne parli è una scelta intrigante, tanto singolare quanto limitante, che rende il film realistico ma a lungo andare soporifero.

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L’inferno dantesco e l’inferno di Antrum: due mondi lontani

Dante’s Inferno (L’Inferno) è un film del 1924 di David Otto che, traendo ispirazione dalla Divina Commedia, racconta un incubo popolato da demoni e gironi infernali ma che nello sviluppo del plot non ha poi molto a che vedere con l’opera di Dante Alighieri. I primissimi fotogrammi ad apparire in Antrum sono tratti proprio da questo vecchio film, seguiti da altri frame presi da Le Diable géant ou le Miracle de la madonne (1901) di Georges Méliès, L’Inferno (1911) di Bertolini – De Liguoro – Padovan e Häxan (1922) di Benjamin Christensen. Si tratta di pellicole antiche, misteriose e ancora terrificanti, evergreen e pietre miliari dell’horror, accomunate dalla presenza di diavoli e di incursioni nell’ultraterreno.
Nonostante questi rimandi, il tentativo di scovare analogie tra l’inferno di Antrum e quello dantesco conduce a pochi ma significativi legami: i due giovani protagonisti si perdono all’interno di una selva che ricorda parecchio Aokigahara, la foresta giapponese dei suicidi (ma che non lo è). La sorella maggiore guida il fratello in crisi lungo quello che sembrerebbe un cammino di iniziazione alla conoscenza (ma che non lo è). E dopo il cameo di un simil-Caronte traghettatore di anime in una scena tanto breve quanto agghiacciante e la comparsa in tralice di un succedaneo canino del Cerbero, l’aldilà del found footage prende le distanze dal capolavoro dantesco, raccontando di un inferno composto da cinque strati ai quali non corrisponde un’effettiva discesa fisica ma un ripetuto peregrinare all’interno della foresta, che cambia aspetto e si fa man mano sempre più ostile.
A disciplinare la modalità d’ingresso agli inferi è un curioso grimorio, chiamato “Libro di Ike”, che descrive i pericoli degli strati infernali e propone incantesimi di difesa dagli spiriti malvagi. Nemmeno questo libro esiste, perché proprio come tutto il resto contenuto nel film, è una menzogna.

Frame tratto da “Antrum”: possibile analogia con il celebre “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”

Frame tratto da “Antrum” – Nathan e Oralee giocano nella foresta dei suicidi

Frame tratto da “Antrum” – Il libro di Ike con il rituale per l’ingresso agli inferi

Le citazioni latine, il cirillico e gli sberleffi linguistici

Antrum è parlato in almeno cinque lingue, : i protagonisti si esprimono in inglese, un viandante suicida che incontrano nel bosco parla in giapponese, i demoni che danno loro la caccia parlano in ungherese, tra le pagine del grimorio e tra gli innumerevoli messaggi subliminali sparsi nel corso della pellilcola fanno capolino delle frasi in latino, come “Nihil pretiosius veritate”, parte della frase “Latet enim veritas, sed nihil pretiosius veritate“, ossia “La verità è nascosta, ma niente è più prezioso della verità”; oppure “Abyssus abyssum invocat“, “Un abisso chiama l’abisso“, adagio presente nei Salmi biblici; o ancora il monito attribuito a san Tommaso D’Aquino “Cave ab hominem unius libri“, “Guardati da chi legge un solo libro“.  I titoli di testa, infine, sono scritti parzialmente in cirillico e spesso nascondono giochi di parole o significati ambigui e inquietanti: una burla linguistica piuttosto peculiare che risulterà impossibile cogliere a chiunque non conosca il russo o il bulgaro, ma che contribuisce a suggerire l’idea che la pellicola stia tendendo un tranello allo spettatore.

Frame tratto da “Antrum” : nihil pretiosius veritate (messaggio subliminale)

 

 

Frame tratto da “Antrum” : abyssus abissum invocat (messaggio subliminale)

 

 

Curiosità dai titoli di testa: nel’ultima riga, “Проклятие” significa “maledizione, sacrilegio”.

Le parole che appaiono, tradotte dal bulgaro, significano “Feto di agnello maledetto”

I messaggi subliminali, la caccia ai dettagli e Satana alla regia

Antrum è pieno zeppo di messaggi subliminali. Si tratta di simboli, glifi, del sigillo di Astaroth, proposto in innumerevoli occasioni, e di brevi scene di un filmato la cui origine non verrà mai rivelata. Sono tantissimi anche i dettagli, apparentemente insignificanti, nei quali invece si nasconde la principale chiave di lettura del film: ad esempio, l’ombra di un uomo che si impicca, che appare per ben quattro volte (si lascia ai lettori il piacere d’individuarla). Oppure, l’ambiguità del rapporto tra mondo reale e mondo degli incubi filtrato attraverso lo sguardo del piccolo Nathan, condannato a credere senza essere creduto, a vedere senza mai comprendere, a fuggire da ciò che lui stesso insegue. Oppure ancora, una frase apparentemente giocosa e insignificante che sin dai primi minuti anticipa l’unica possibile interpretazione del film, della sua aura maledetta, delle presenze che lo infestano e dello strano effetto che fa: “sembra che il diavolo in persona abbia diretto un film”.
Solo immaginando Satana alla regia, ogni dettaglio acquista un senso. D’altro canto, tra sigilli di Astaroth, apparizioni in trasparenza e apparizioni in chiaro, parole in tante lingue diverse, pentoloni sacrificali a forma di demone Bafometto e agghiaccianti interferenze sonore, diventa chiaro che a dirigere un film basato sulla menzogna -poiché è pur sempre un falso documentario su un film inesistente – e sull’ambiguità – perché le motivazioni, le storie e le sorti di chiunque appaia nel film rimangono ignote – non può che essere stato lui, il diavolo. La complessità di Antrum sta proprio nella sfida che lancia allo spettatore, costringendolo a osservare, volente o nolente, la manifestazione del male, senza mai distogliere lo sguardo da ciò che più lo terrorizza, proprio come negli incubi.

Il sigillo di Astaroth appare innumerevoli volte sotto forma di messaggio subliminale.

Alcuni dei fotogrammi del misterioso footage parallelo che appaiono nel corso del film.

Simboli e glifi in “Antrum” (messaggio subliminale) 

Il diavolo si rivela gradualmente all’interno della pellicola.

 

What we do in the shadows: il mio coinquilino di merda è un vampiro

Ci siamo passati tutti: l’appartamento in condivisione con perfetti sconosciuti, i piatti sporchi lasciati dal giorno prima, le piccole insopportabili abitudini altrui, dover pulire divani e pareti dal sangue delle vittime, non disturbare i vicini. La convivenza non è mai facile, soprattutto se a doversi dividere gli spazi sono quattro vampiri europei emigrati in Nuova Zelanda.
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Lake Mungo, scatole cinesi di paura

Quando un horror riesce a disorientare, stupire e allo stesso tempo spaventare, significa che è un buon horror. Poco importa che non sia granché famoso o che sia stato realizzato con un budget incredibilmente basso. Lake Mungo, una produzione indipendente del 2008 diretta da Joel Anderson,maneggia con maestria alcuni meccanismi stantii dell’horror, regalando un amalgama intelligente di found footage e mockumentary.

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