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TALK TO ME – QUANDO LA POSSESSIONE SPIRITICA È L’ANIMA DELLA FESTA

C’è una misteriosa scultura a forma di mano che, se afferrata in presenza di una candela accesa dopo aver pronunciato la frase “Parla con me”, permetterebbe di entrare in contatto con lo spirito di un defunto a caso. Chi ha il coraggio, può lasciarlo entrare dentro di sé per vedere l’effetto che fa. Ma solo per novanta secondi, altrimenti sono guai. E siccome quello del “Parla con me” è un gioco particolarmente in voga tra i teenager, i guai non tarderanno ad arrivare. Talk to me è il lungometraggio d’esordio degli australiani Danny e Michael Philippou, in arrivo nei cinema italiani il 28 settembre.

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[RECENSIONE] POSSESSOR DI BRANDON CRONENBERG: DISTOPIE, FANTASCIENZA E HORROR DI GENERAZIONE IN (DE)GENERAZIONE

E il verbo si fece carne, e nella carne venne inserito un impianto, ma qualcosa andò storto, e carne e impianto si fusero dando vita ad un’aberrazione fatta di tessuto cicatriziale e parti meccaniche, costretti a vagare all’interno di un piano della realtà soggetto a mutazioni di origine virale“.
Se la filmografia di David Cronenberg fosse un credo e avesse le sue scritture, un passo reciterebbe probabilmente così. Deliri mistici a parte, la filmografia di Cronenberg è davvero un punto di riferimento sacro per il cinema, anche per lo stesso figlio del cineasta canadese, Brandon Cronenberg (già autore del validissimo Antiviral), che ha deciso di ripercorrere le orme paterne divenendo a sua volta regista e dedicandosi ai medesimi temi già affrontati dal padre: il progresso come inganno, lo scompattamento dell’io, il body horror in tutte le sue declinazioni, l’imprevedibilità irrazionale degli eventi, l’ambiguità di fondo tra reale e immaginario, tra vissuto e virtualità, tra l’azione concreta e il piano del desiderio, l’affinità tra sessualità, malattia e morte, il gusto del deforme, l’asettica osservazione dell’anomalia biologica, l’epidermide come punto di accesso e mezzo di espressione del male, dell’orrore e del disgusto, eccetera.

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[Recensione] Hereditary: i panni sporchi si evocano in famiglia

Esistono due modi per approcciarsi alla visone di Hereditary, il lungometraggio d’esordio dell’americano Ari Aster che ha lasciato soddisfatti molti, perplessi altri e con la costante sensazione di essersi persi qualcosa di fondamentale ai fini della comprensione del film  un po’ tutti: guardarlo una prima volta, leggere subito dopo qualche articolo-spiegone (come ad esempio questa umile guida ai dettagli, simboli e segnali all’interno del film che forse vi erano sfuggiti) e magari guardarlo una seconda volta, alla luce della nuova consapevolezza acquisita. Oppure leggere in maniera preliminare qualche articolo-spiegone (come ad esempio questa umile guida ai dettagli del film che forse vi sareste persi con l’inevitabile presenza di spoiler parecchio rilevanti sulla trama e annientamento di qualsiasi effetto sorpresa), guardarlo un’unica volta, saperla lunga, fare bella figura con gli altri spettatori e mostrare una consapevolezza quasi sospetta su dettagli, simboli e segnali sparsi qua e là lungo la pellicola. Quale che sia la scelta, da qui in avanti appariranno  suddetti spoiler parecchio rilevanti.

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Alucarda (1977): tutta nera, tutta calda

Prendi un collegio abitato da suore, aggiungi un lesbo-patto con il Diavolo, amalgama con tantissime urla da soap opera latinoamericana e ottieni Alucarda di Juan López Moctezuma. La ricetta base di questo film messicano sembra facile, ma il condimento è molto più ricco di quanto non possa sembrare a un primo assaggio.

Intanto c’è il regista, Moctezuma, che è anche un collaboratore di Jodorowskj e che per questo non potrà fare a meno di insaporire la sua pellicola con un velato misticismo fiabesco, che anni dopo Guillermo Del Toro (tra registi “horror” MENO amati da chi scrive, NdA) non potrà fare a meno di apprezzare e omaggiare.
Poi c’è l’inevitabile accostamento a due film ben più famosi e pregiati: I Diavoli di Ken Russel, seppur con tutte le differenze del caso, per l’affinità tra le scene di isteria collettiva e invasamento di attraenti suorine, sul ciglio della nunxploitation e Carrie di Brian De Palma per alcune palesi analogie visive nel finale. E in un circolo vizioso che va per aspera ad astra – più aspera che astra, a dirla tutta – si passa dall’omaggio alla letteratura del Marchese de Sade a una recitazione da telenovelas con tanto di urla finte riproposte con cadenza regolare di una ogni trenta secondi.

Alucarda è un’adolescente inquieta e dagli scarsi freni inibitori, con un aspetto piuttosto dark, lunghi capelli scuri a incorniciare lo sguardo e vestito nero goticheggiante a disegnarne la sagoma. Essa vive in un orfanotrofio simile a una casa rupestre gestito da suore che indossano strani e palesemente scomodi vestiti color cipria che sembrano creazioni di Gucci sotto mescalina:

Nata sotto una cattiva stella e genuinamente votata al male, Alucarda seduce la sua compagna di stanza Justine, coinvolgendola in una serie rocambolesca di vicissitudini che comprendono un patto col demonio in salsa lesbo, un soffocante rapporto d’amore, la possessione demoniaca, un esorcismo in chiave bdsm con tanto di crocifissione da nuda e torture, la morte di Justine, una breve resurrezione della stessa sotto forma di demone grondante sangue, l’eliminazione definitiva a suon di acido muriatico e un paio di denunce per disturbo della quiete pubblica.

Quello di Moctezuma è un film visionario e quasi ingenuo, dalla realizzazione imperfetta che ne mina la credibilità ma che gli assicura un posto tra i film di culto che raccontano un’epoca, gli anni Settanta, lasciando intravedere in filigrana gli argomenti caldi di un decennio allucinato: la ribellione sessuale, un ritorno alla natura e alla nudità, l’esoterismo, la ricerca di culti alternativi a quello cattolico e cristiano. Impossibile prenderlo sul serio ma difficile non apprezzarlo e rimanere sorpresi dal paradossale iato filmico tra buone e cattive idee, genuinità e povertà della sceneggiatura, carisma dei personaggi e scarsa capacità recitativa del cast.

Islamic Exorcist, l’horror indiano delle controversie

Quando alcune settimane fa ho visto una locandina con su scritto “Islamic Exorcist” incoronata da roboanti tagline, sono subito stata genuinamente curiosa di vederlo. Il cinema contemporaneo pullula di film-fotocopia sulla possessione demoniaca, che si rifanno per lo più alla tradizione cattolica. Con alcune eccezioni: come ad esempio il polacco Demon di Marcin Wrona, in cui a possedere è un dybbuk della tradizione ebraica; oppure Siccîn di Alper Mestçi, pasticciato horror turco su misteriosi rituali islamici di magia nera, per non parlare dei vari film popolati dai jinn, malevole creature della religione islamica. Per questo motivo o anche per semplice curiosità interculturale, gli horror dal mondo andrebbero visti, supportati e raccontati.

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Il Demonio (Brunello Rondi): esorcismo before it was cool

Come fare a scrivere delle pellicole horror del passato, quando già sono stati consumati fiumi d’inchiostro – o miliardi di righe di codice – quando tutto è già stato detto e scoperto? Mi sono arrovellata a lungo prima di decidere se aggiungere o meno in questo sito una sezione dedicata al vintage, ai film più vecchi, all’horror datato da riscoprire. Poi ho pensato che ne vale la pena, almeno per omaggiare quei film che magari, al di fuori della cerchia di cinefili e connoisseur, proprio famosissimi non sono. O magari sì, ma non importa quanto sia vecchio e conosciuto un film: ci saranno sempre prime visioni e prime fascinazioni orrorifiche.

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